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Faglia sisma da satellite

Faglia sisma da satellite

terremoto-amatrice-24-agosto-2016-2Nell’emergenza post terremoto che ha colpito il reatino e le Marche, il Dipartimento della Protezione Civile, fin dalle primissime ore dopo il sisma, ha attivato i suoi centri di competenza nei settori della sismologia e dell’elaborazione dei dati radar satellitari – Consiglio Nazionale delle Ricerche (Istituto per il Rilevamento Elettromagnetico dell’Ambiente, CNR-IREA di Napoli) e dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) – per un’analisi di dati satellitari volta alla misura dei movimenti del suolo innescati dalle scosse ed allo studio delle sorgenti sismiche.

“Utilizzando i dati del satellite giapponese ALOS 2, ottenuti tramite progetti scientifici, un team di ricercatori di CNR e INGV ha misurato con alta precisione i movimenti permanenti del suolo originati durante il terremoto, utilizzando la tecnica dell’Interferometria Differenziale”, spiega Riccardo Lanari, direttore del CNR-IREA. “Essa consente, confrontando immagini radar acquisite prima dell’evento con immagini successive al sisma, di rilevare deformazioni della superficie del suolo con accuratezza centimetrica. In particolare, è stato evidenziato un abbassamento del suolo a forma di cucchiaio che si estende per circa 20 Km in direzione Nord e ha un valore massimo di circa 20 centimetri in corrispondenza dell’area di Accumoli”. La faglia sorgente del terremoto di Amatrice si colloca a pochi chilometri di profondità nella zona compresa tra Amatrice e Norcia. In fase di elaborazione, da parte dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, i dati dei satelliti della costellazione italiana Cosmo SkyMed, lanciati dall’Agenzia Spaziale Italiana a partire dal 2007 e sono in grado di rilevare immagini e dati nell’arco delle 24 ore e in qualsiasi condizione atmosferica, adatti in particolare a misurare i movimenti veloci della crosta terrestre. L’Italia è l’unico Paese ad avere una costellazione radar di alta precisione, indipendente dalle condizioni meteorologiche, il che ha permesso di contribuire allo studio dei grandi eventi sismici verificatisi non solo in Italia ma su tutto il pianeta. In fase di acquisizione ed elaborazione anche i dati e le immagini del satellite europeo Sentinel 1, che fa parte del programma di osservazione della Terra Copernicus, dell’Agenzia Spaziale Europea ed è particolarmente adatto a misurare i movimenti lenti della crosta terrestre.

Acqua da rocce lunari

Acqua da rocce lunari

Luna imageIl programma spaziale Apollo, culminato con lo sbarco di sei equipaggi sulla Luna, ha consentito di portare a Terra un enorme quantitativo di campioni lunari. Dalle prime analisi risultava che queste rocce fossero completamente prive di acqua, ma ricerche più accurate hanno mostrato che, sebbene in piccole quantità, l’acqua è presente sul nostro satellite naturale. Secondo un nuovo studio pubblicato sulla rivista Nature Communications, la maggior parte dell’acqua presente all’interno della Luna è stata portata da asteroidi tra 4.5 e 4.3 miliardi di anni fa. Nell’era del programma Apollo la Luna è stata spesso descritta come un corpo privo di acqua. Grazie al progressivo miglioramento delle tecniche di analisi, gli scienziati si sono resi conto che l’acqua è presente nel sottosuolo lunare, ma in quantità così piccole da non essere rilevabili all’epoca del rientro a Terra dei primi campioni. La scoperta di acqua nella Luna apre un nuovo dibattito circa la sua provenienza. Nello studio gli scienziati hanno confrontato la composizione chimica e isotopica dei materiali volatili lunari con quella dei volatili trovati in comete e campioni meteorici di asteroidi. Il team ha poi calcolato la proporzione di acqua che potrebbe essere stata trasportata da queste due popolazioni di oggetti, e i risultati indicano la maggior parte (più dell’80 percento) dell’acqua lunare deriva da asteroidi simili alle meteoriti condritiche carbonacee. Le condriti sono meteoriti rocciose che non sono state modificate da processi di fusione o differenziazione, e sono quindi costituite da materiale primitivo del Sistema solare, che si è addensato da grani e polveri a formare asteroidi. Le condriti carbonacee sono caratterizzate dalla presenza di carbonio e suoi composti, tra cui amminoacidi. L’acqua sembra dunque arrivata sulla Luna quando questa era ancora circondata da un oceano di magma, molto prima che si formasse la crosta che vediamo ora, e che impedisce agli oggetti che impattano sul nostro satellite di portare quantità significative di materiale negli strati più profondi. Per quanto riguarda l’arrivo dell’acqua sulla Terra, deve essere accaduto qualcosa di molto simile, all’incirca nello stesso intervallo di tempo. In sostanza, la Luna potrebbe aver ricevuto acqua quando si trovava in uno stato ancora parzialmente fuso, mentre la sua crosta primordiale si stava formando. Le composizioni isotopiche degli elementi volatili presenti nei campioni lunari suggeriscono che le fonti principali di quell’acqua siano state asteroidi simili a meteoriti carbonacee di tipo CI, CM e CO. Le meteoriti di tipo CI e CM contengono acqua dal 10 al 20 percento, mentre quelle di tipo CO ne contengono dal 2 al 5 percento. Sebbene le comete possano contenere molta più acqua (fino al 50 percento), le loro composizioni isotopiche non corrispondono a quelle degli elementi volatili lunari. Si ritiene che meno del 20 percento dell’acqua all’interno della Luna provenga dalle comete.

 

Satelliti e Gps per i Campi Flegrei

Satelliti e Gps per i Campi Flegrei

PozzuoliDall’impiego dei satelliti Cosmo-SkyMed dell’Agenzia Spaziale Italiana nasce la nuova tecnica, firmata Cnr e Istituto Nazionale di geofisica e vulcanologia, che permette di calcolare le modalità con cui il magma profondo risale all’interno del sottosuolo, creando deformazioni anche millimetriche della superficie terrestre. Un meccanismo probabilmente comune ad altre caldere, quali Yellowstone negli Usa e Rabaul in Papua Nuova Guinea. Lo studio, pubblicato su Scientific Reports, fornisce nuovi sistemi di monitoraggio utili ad affrontare eventuali future crisi vulcaniche

I dati acquisiti dai satelliti e dai ricevitori Gps della rete di sensori presenti nell’area dei Campi Flegrei servono per monitorare le deformazioni della superficie terrestre e conoscere, in tempo reale, l’andamento del sollevamento del suolo all’interno della caldera. La nuova tecnica di monitoraggio, messa a punto da un team di ricercatori dell’Istituto per il rilevamento elettromagnetico dell’ambiente del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Irea) e dell’Osservatorio vesuviano dell’Istituto Nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv-Ov), permette di comprendere meglio i fenomeni di sollevamento avvenuti in questi ultimi anni ai Campi Flegrei. Lo studiorientra tra le attività di monitoraggio promosse dal Dipartimento nazionale di protezione civile (Dpc) e di quelle svolte nell’ambito del progetto europeo Med-Suv (MEDiterraneanSUpersite Volcanoes).

“Grazie ai dati acquisiti dai satelliti Cosmo-SkyMed (messi in orbita dall’Agenzia spaziale italiana a partire dal 2007), dotati di sistemi radar, e dai ricevitori Gps della rete di sorveglianza geodetica Ingv-Ov, composta da ben 14 sensori sparsi nell’area dei Campi Flegrei”, spiega Susi Pepe, ricercatrice del Cnr-Irea, “è stato possibile studiare le deformazioni, anche millimetriche, della superficie terrestre e conoscere l’andamento del sollevamento del suolo all’interno della caldera in corrispondenza dei ricevitori”.

Negli scorsi millenni la caldera dei Campi Flegrei ha prodotto eruzioni di dimensioni ciclopiche: quarantamila anni fa quella dell’Ignimbrite Campana e quindicimila anni fa quella del Tufo Giallo Napoletano, che hanno fatto crollare la parte superficiale del vulcano per centinaia di metri, formando l’attuale struttura. “Dopo l’ultima eruzione del 1538, che ha prodotto il cratere di Monte Nuovo”, afferma il ricercatore responsabile della Sala di monitoraggio dell’Osservatorio vesuviano dell’Ingv, Luca D’Auria, “il suolo dei Campi Flegrei ha iniziato a sprofondare lentamente per secoli, interrompendosi intorno al 1950, quando l’area ha ripreso a sollevarsi. Questo fenomeno, noto come bradisisma, ha manifestato tutta la sua violenza tra il 1982 e il 1985, periodo in cui il suolo si è sollevato di quasi 2 metri, con accompagnamento di terremoti, provocando l’evacuazione di migliaia di abitanti della città di Pozzuoli. Nel 2005 il suolo ha ripreso a sollevarsi lentamente e i terremoti, di bassa magnitudo, sono ricomparsi”.

campi-flegreiNegli ultimi 10 anni il suolo si è sollevato di quasi 30 cm., tanto che nel dicembre 2012, sulla base delle indicazioni della Commissione grandi rischi, la Protezione civile ha innalzato dal verde (quiescenza) al giallo (attenzione) il livello di allerta dei Campi Flegrei. “Riguardo l’origine del bradisisma flegreo”, prosegue D’Auria, “la comunità scientifica concorda sul fatto che tra il 1985 ed il 2012 il sollevamento era legato all’immissione di fluidi idrotermali (acqua e gas) all’interno delle rocce della caldera e al progressivo riscaldamento di queste ultime. Sul più recente episodio, tra il 2012 ed il 2013, il fenomeno sarebbe invece da attribuire alla risalita di magma a bassa profondità (circa 3 km) che si inietta nelle rocce del sottosuolo formando uno strato sottile, noto come sill, un piccolo ‘lago sotterraneo’, con un raggio di 2-3 km. Il sill era già presente nel sottosuolo e probabilmente è stato attivo durante le crisi bradisismiche degli scorsi decenni quando quantità di magma, anche dieci volte superiori, sono arrivate in questa piccola camera magmatica superficiale”.

Il magma all’interno del sill però, può raffreddarsi rapidamente, rendendolo quindi meno capace di produrre eruzioni esplosive. Questo meccanismo, osservato ai Campi Flegrei, è probabilmente comune ad altre caldere (ad esempio Yellowstone negli Usa e Rabaul in Papua Nuova Guinea) e potrebbe spiegare alcuni comportamenti apparentemente ‘bizzarri’ osservati in questi vulcani. “La previsione delle eruzioni vulcaniche nelle caldere presenta spesso difficoltà maggiore rispetto ad altri vulcani”, aggiunge D’Auria dell’Ingv. “La risalita e l’intrusione del magma all’interno del sill potrebbe, infatti, essere il normale ciclo di vita delle caldere”.

cosmoskymed2_artistI risultati dello studio sono di grande importanza per l’interpretazione dei dati acquisiti dalle nuove generazioni di satelliti (come quelli della costellazione Sentinel del Programma europeo Copernicus, operata dall’Agenzia Spaziale Europea) e dalle innovative tecnologie di monitoraggio geofisico ai Campi Flegrei. “Questi nuovi sistemi di monitoraggio, integrati con le nuove metodologie di analisi, possono fornire uno strumento utile ad affrontare eventuali, future, crisi vulcaniche ai Campi Flegrei”, conclude Susi Pepe del Cnr.

 

EXPO 2015: la Terra vista dallo Spazio

EXPO 2015: la Terra vista dallo Spazio

AGRICOLTURA_Pantelleria_Deimos-2_mar15L’EXPO 2015 è un’occasione per riflettere su quanto lo sviluppo delle tecnologie spaziali e le attività satellitari di osservazione della terra possano contribuire al miglioramento della produzione agricola e della disponibilità di cibo per le popolazioni del pianeta. Il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia propone, fino al 10 gennaio 2016, la mostra “Il mio Pianeta dallo Spazio – Fragilità e Bellezza”, progetto espositivo promosso e organizzato dall’Agenzia Spaziale Europea (ESA), in collaborazione con l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI), la Presidenza Italiana del Consiglio dell’Unione Europea e la Commissione Europea. Una mostra per immagini e videoinstallazioni che offre l’opportunità di vedere il nostro pianeta con gli occhi dei satelliti e capire quanto questi preziosi strumenti possono contribuire alla sicurezza alimentare e allo studio del pianeta Terra. Curata da Viviana Panaccia e presentata al Palazzo delle Esposizioni di Roma nel 2014, nell’edizione di Milano si focalizza su agricoltura, foreste e territorio essendo i temi della sicurezza alimentare e dell’agricoltura gli argomenti di EXPO 2015. Un evento concepito per esaltare il ruolo delle tecnologie spaziali per la corretta gestione delle risorse del pianeta e alla cui inaugurazione hanno partecipato l’astronauta Luca Parmitano, Roberto Battiston, presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana Volker Liebig, Direttore dei Programmi di Osservazione della Terra di ESA, Simonetta Cheli , capo dell’Ufficio di Coordinamento Direttorato Programmi Osservazione della Terra

“Nutrire il pianeta significa innanzitutto averne cura – sottolinea Fiorenzo Galli, Direttore Generale del Museo della Scienza e Tecnologia – Mostrare con queste straordinarie immagini la bellezza e la fragilità della ‘nostra casa’, dà la possibilità di comprendere il valore della gestione delle risorse naturali, della protezione dell’ambiente, della tutela delle foreste che ci fanno respirare, della terra da coltivare, della biodiversità, dell’aggressività antropocenica da contenere, per dare un giusto futuro ai nostri figli”.

Il percorso espositivo, in un’area attigua all’esposizione permanente dedicata allo Spazio e all’Astronomia, verte su quattro aree tematiche; ghiacci e acqua, foreste, agricoltura e città, Gli occhi dei satelliti ci inviano immagini della Terra in cambiamento e sottolineano l’importanza fondamentale delle piattaforme orbitale di osservazione terrestre come strumento per la gestione delle risorse naturali e la protezione dell’ambiente. Oggi esistono oltre 30 aree metropolitane con più di 10 milioni di abitanti ciascuna. I dati ad alta risoluzione forniti dai satelliti sono importanti per la pianificazione e uno sviluppo sostenibile delle aree urbane e possono essere utilizzati per controllare l’inquinamento dell’aria, i rischi ambientali e le risorse idriche.

Anche la Facoltà di Ingegneria Civile e Industriale dell’Università La Sapienza di Roma (Aula del Chiostro di Via Eudossiana 18, dalle 14:30 di mercoledì 13 maggio), su iniziativa del prof. Marcello Onofri, promuove una conferenza per analizzare il contributo possibile della ricerca spaziale al miglioramento della produzione agricola e alla crescita dell’agricoltura sostenibile sulla Terra. A parlarne è stata chiamata Ellen Stofan, Chief Scientist della Nasa, insieme a Volker Liebig, Direttore ESA- ESRIN, Enrico Flamini, Coordinatore Scientifico dell’Agenzia Spaziale Italiana. Un’opportunità per discutere i progressi fatti nello sviluppo di nuovi metodi di alta tecnologia per affrontare le diverse sfide in agricoltura, sicurezza alimentare e cambiamenti climatici.

Nell’immagine in evidenza, l’isola di Pantelleria (credit: ESA)

Terremoti studiati da Terra e Spazio

Terremoti studiati da Terra e Spazio

Swarm_constellationCapire cosa avviene durante la fase che precede i grandi eventi sismici attraverso i dati rilevati da satellite e da terra. È quanto si prefigge il progetto Swarm for earthquake study, coordinato dall’Ingv, con la collaborazione di Planetek Italia. Lo studio, finanziato dall’Agenzia Spaziale Europea, al via dal 2 maggio 2015. I terremoti sono tra i fenomeni naturali più  potenti e devastanti che avvengono sulla terra sia in termini di perdite di vite umane sia di danni materiali. Nel mondo, solo nell’ultimo secolo, sono state oltre tre milioni le vittime in seguito a eventi sismici. Nonostante i numerosi studi e l’imponente mole di dati collezionati nel corso di diversi decenni abbiano permesso di migliorare la conoscenza dei fenomeni fisici che avvengono prima, durante e dopo un terremoto, e la prevenzione rimanga l’unica azione in grado di mitigare gli effetti dei terremoti, molto si potrebbe ancora fare per comprendere meglio la fase preparatoria di un terremoto. Studiare cosa avviene durante la fase che precede i grandi eventi sismici e individuare eventuali segnali elettromagnetici dallo spazio, sono i principali obiettivi del progetto Swarm for earthquake study (Safe) coordinato dall’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) e coadiuvato dalla Planetek Italia. La ricerca, finanziata  dall’Agenzia spaziale europea (Esa), avrà una durata di 16 mesi.

“Il progetto intende studiare la fase preparatoria di grandi eventi sismici attraverso l’analisi di dati elettromagnetici provenienti dai sensori a bordo dei tre satelliti della costellazione Swarm dell’Esa, al fine di comprendere meglio i meccanismi fisici coinvolti”, spiega Angelo De Santis, dirigente di ricerca dell’Ingv e  coordinatore dello studio. Safe si configura come un’applicazione innovativa della missione satellitare Swarm, inizialmente progettata e realizzata dall’Esa per fornire dati utili all’avanzamento delle attuali conoscenze delle proprietà elettromagnetiche della Terra.

“L’approccio utilizzato è quello olistico della geosistemica, per la quale il pianeta Terra è considerato un unico grande sistema, in cui ogni singolo fenomeno è il prodotto dell’interazione delle parti che lo costituiscono sotto forma di trasferimento di particelle e/o di energia. In particolare, il progetto Safe si propone lo studio dell’accoppiamento tra la parte più esterna della Terra solida, la litosfera, dove avvengono i terremoti, e la parte fluida sovrastante, l’atmosfera”, prosegue De Santis.

L’obiettivo è catturare le informazioni scambiate tra i due strati attraverso l’integrazione dei dati acquisiti dai satelliti Swarm con quelli raccolti da altri satelliti e da stazioni di misura poste a terra. “Per farlo”, sottolinea Cristoforo Abbattista, responsabile della Business Unit Space Systems di Planetek Italia, “è necessario organizzare e fondere i dati satellitari con quelli da terra per estrarre in tal modo le informazioni necessarie alla suddetta analisi”. La combinazione dei dati potrebbe fornire un ampio quadro geofisico in grado di migliorare le attuali conoscenze della fisica dei terremoti e dei loro processi di preparazione rilevabili dallo spazio. “Per raggiungere i risultati attesi e garantirne la massima diffusione”, conclude Lucilla Alfonsi, ricercatrice dell’Ingv, “concorrono alla ricerca esperti in sismologia, fisica dell’alta atmosfera, geomagnetismo ed elaborazione dati satellitari”.

Oceanografia e vulcanologia

Oceanografia e vulcanologia

StromboliL’oceanografia operativa è al centro del convegno ospitato a Oristano (3-5 giugno 2013) che offre una panoramica dei più avanzati strumenti operativi e strategici per il monitoraggio e le previsioni del mare e serve a fare il punto sullo stato di sviluppo delle previsioni a livello globale e di Mare Mediterraneo, dei Mari Italiani e sulle applicazioni che ne derivano per la gestione delle emergenze e lo sviluppo sostenibile delle attività. Riunito il Gruppo nazionale di oceanografia operativa (Gnoo), organo di coordinamento nazionale dell’Ingv, di cui fanno parte Consiglio nazionale delle ricerche, Enea,Ogs, Arpa dell’Emilia Romagna e della Liguria, Conisma, Cmcc, Istituto idrografico della Marina, Centro nazionale di meteorologia e climatologia dell’Aeronautica Militare (Cnmca), Ufficio spazio aereo e meteorologia (Usam) e Comando generale delle capitanerie di porto.

“L’oceanografia operativa è una disciplina che si propone di realizzare un sistema integrato di dati osservativi in tempo reale e di modelli previsionali, allo scopo di valutare con accuratezza lo stato dei mari e degli oceani per lo sviluppo sostenibile delle attività e per la protezione dell’ambiente”, spiega Roberto Sorgente, ricercatore del Cnr e responsabile del Gruppo di oceanografia operativa di Oristano. “La scienza e la tecnologia sviluppate in oceanografia negli scorsi venti anni hanno dimostrato che oggi è possibile monitorare il mare con satelliti e misure in situ che possono arrivare in tempi strettissimi ai centri di previsione delle condizioni del mare così permettere di usare modelli per la previsione del mare e delle sue condizioni, dalle correnti alla biochimica marina”, dichiara Nadia Pinardi, docente di oceanografia presso l’Università di Bologna, direttore del Gnoo e associato di ricerca dell’Ingv.

Il convegno di Oristano mira a divulgare, sia al grande pubblico che agli studiosi, lo stato di avanzamento dell’oceanografia operativa in Italia ed i corrispondenti sviluppi a livello europeo ed internazionale, in un legame sempre più stretto con l’industria e con chi opera in mare sia a livello pubblico che privato. A livello internazionale le attività del Gruppo nazionale di oceanografia operativa fanno riferimento al programma Goos dell’Unesco, alle Partnership delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile, alla Direttiva europea sulle acque (Wfd), alla Direttiva quadro sulla strategia integrata per l’ambiente marino (Mfsd), Horizon 2020, e al programma europeo per il monitoraggio globale dell’ambiente e la sicurezza (Copernicus, ex Gmes).

Intanto si è conclusa la campagna di misure denominata RICAMAR 2013 che ha avuto come obiettivo la caratterizzazione del fondale marino del Golfo di Pozzuoli per la realizzazione, in prospettiva, di una rete di monitoraggio a mare. L’Unità Idro-oceanografica d’altura della Marina Militare, Nave Ammiraglio Magnaghi, ha lasciato il Porto di Pozzuoli per una nuova destinazione; sempre impegnata nello studio del mare e dei suoi fondali. Prossima tappa: le Isole Eolie, una delle quali, Stromboli, funge da teatro di un esperimento unico per lo studio dell’attività esplosiva dei vulcani. Nell’ambito del progetto europeo NEMOH 15 ricercatori dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia di Roma e Catania, insieme a colleghi provenienti dalle Universita’ di Palermo, Berlino, Monaco di Baviera e Lancaster, sono impegnati nella raccolta di dati relativi alle esplosioni del vulcano, utilizzando le tecnologie piu’ avanzate applicate in campo vulcanologico. Microfoni, telecamere termiche e ad alta velocita’, sismografi e camere a ultravioletti di ultima generazione sono state installate sul vulcano e stanno registrando simultaneamente ogni tipo di segnale emesso dal vulcano durante le esplosioni. I dati, una volta elaborati e confrontati con quelli raccolti su altri vulcani del mondo, contribuiranno a migliorare le conoscenze sui meccanismi eruttivi dello Stromboli contribuendone alla valutazione della sua pericolosità.