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L’eredità di Keplero

L’eredità di Keplero

Dr. Roger C. Hunter, NASA

L’eredità della Missione Keplero e il punto sul futuro dell’esplorazione spaziale sono stati oggetto del seminario organizzato dal Dipartimento di Ingegneria Industriale dell’Università di Napoli Federico II e dal Center for Near Space dell’Italian Institute for the Future, alla facoltà di ingegneria dell’Università Federico II di Napoli, che ha visto relatore Roger C. Hunter, direttore NASA per il programma “Small Spacecraft Technology”. Hunter è stato il program manager della famosa missione Keplero della NASA, che ha portato alla scoperta di numerosi esopianeti nella via Lattea. Il telescopio Keplero è stato lanciato nello spazio nel 2009 con un vettore Delta da Cape Canaveral ed è ancora oggi in orbita intorno al Sole puntando con sofisticati strumenti ottici un incredibile numero di stelle della nostra galassia per identificare pianeti potenzialmente abitabili con caratteristiche simili alla Terra. Ad oggi più del 70% degli esopianeti classificati è stato identificato e confermato grazie a questo telescopio.

Ad introdurre i lavori è stato il professore Raffaele Savino dell’Università di Napoli Federico II, esperto di tematiche spaziali, il quale ha ricordato come questo sia un momento particolarmente interessante per l’esplorazione spaziale in Europa e nel mondo, soprattutto dopo la positiva conclusione della missione Rosetta dell’Agenzia Spaziale Europea, che ha portato dopo un viaggio di oltre 12 anni e 6 miliardi di chilometri la sonda Philae sulla cometa 67P/Churyumov–Gerasimenko, e alla vigilia della fase cruciale della missione europea ExoMars, con il distacco dell’orbiter dal modulo che attraverserà l’atmosfera marziana per poi “ammartare” sulla superficie del pianeta rosso e inviare sulla terra, attraverso l’orbiter, i dati scientifici raccolti. Altri interessanti programmi in corso negli Stati Uniti comprendono la missione Osiris-Rex, lanciata meno di un mese fa, che raggiungerà l’asteroide 101955 Bennu nel 2019 per eseguire studi ed il prelievo di campioni di materiale da riportare a terra per la successiva analisi. Senza dimenticare i programmi di cooperazione internazionale per l’utilizzo dell’orbita bassa, le iniziative commerciali tra cui i programmi di Space X e di altri privati come Sierra Nevada che stanno radicalmente cambiando la visione di accesso e utilizzo dello spazio. A seguire, Antonio Moccia, direttore del Dipartimento di Ingegneria Industriale della Federico II, ha sottolineato come la scuola aerospaziale napoletana abbia una lunga tradizione di attività cominciata con gli storici programmi di esplorazione polare del generale Umberto Nobile e proseguite con il prof. Luigi Napolitano, autore di numerosi esperimenti in microgravità, continuando a svolgere programmi su microgravità, aerotermodinamica e telerilevamento. L’ing. Gennaro Russo, direttore del Center for Near Space, centro di competenza dell’Italian Institute for the Future, ha posto l’accento sulla necessità di stimolare la nascita e la crescita in Italia dell’Astronautica Civile, ovvero di un settore commerciale con tanto di imprenditori privati capace di rendere lo spazio accessibile e fruibile per tutti. Per fare ciò è indispensabile diffondere il più possibile la conoscenza e la consapevolezza di ciò che significa “spazio”, e di quanto questo sia molto più raggiungibile di quanto non di creda. Ispirare i giovani ed attrarli verso le attuali attività spaziali è un must, non meno di quanto non lo sia stato agli albori dell’aviazione civile nella prima metà del secolo scorso.

kepler_0Roger Hunter ha raccontato il significato della ricerca di pianeti simili alla terra in una porzione della regione della Via Lattea più vicina a noi. Si tratta di una zona in prossimità della costellazione del Cigno dove sono state monitorate con continuità oltre 140.000 stelle. Grazie al programma Keplero, cercando periodiche diminuzioni di luminosità delle stelle, si è passati dai tre esopianeti conosciuti nel 2009 prima del lancio della sonda agli oltre 5000 candidati pianeti oggi catalogati. Molto interessante è l’aver scoperto che quasi la metà di questi pianeti è caratterizzato da una dimensione che non ha riscontro tra i pianeti del sistema solare. Quasi a dire che è il sistema dove viviamo ad essere un’anomalia!

Durante i sette anni di vita della missione fin qui passati, i tecnici e scienziati della NASA hanno dovuto affrontare dei problemi tecnici per niente insignificanti. Il fatto più eclatante è stato che due delle quattro ruote di inerzia, sottosistemi utilizzati per il controllo fine dell’assetto della sonda e quindi per il puntamento accurato del telescopio, si sono guastate a distanza di circa sei mesi l’una dall’altra. Sembrava che la missione fosse destinata a concludersi anzitempo con la perdita di ingenti risorse. E invece gli specialisti hanno trovato il modo di procedere; sfruttando il vento solare sono riusciti a garantire una sufficiente accuratezza di puntamento tale che il telescopio ha continuato a prendere immagini e raccogliere dati. Una recentissima scoperta di Keplero di particolare curiosità ed importanza è quella di un corpo celeste delle dimensioni di Giove che orbita intorno a due stelle nella costellazione del Cigno. Così, ancora una volta, la fantascienza è diventata realtà; il riferimento è ad alcune scene immaginate molti lustri fa da George Lucas nel suo Star Wars in cui la vita su un pianeta extrasolare era illuminata da due soli. Immaginate che in quella situazione, oggi dimostrata essere reale, la nostra ombra non è più sola, ha rilevato Hunter! Un altro importante aspetto evidenziato dal Dr. Hunter è il tempo. Tutte le osservazioni di Keplero sono relative ad oggetti risalenti a migliaia di anni luce di distanza; quindi, qualunque deduzione possiamo fare sull’abitabilità di eventuali esopianeti, essa é relativa a situazioni ampiamente passate. Ma molte sono le domande aperte che facilmente passano dalla sfera scientifica a quella filosofica: questi pianeti potrebbero essere (stati) abitati da specie viventi? Cosa dobbiamo pensare per specie viventi? Dato che le osservazioni basate sulla tecnologia odierna sono relative a passati assai remoti, come potrebbero essere evoluti questi altri mondi? Queste domande sono destinate a restare tali per lunghissimo tempo ancora, anche se l’umanità sta facendo passi enormi verso lo spazio e sappiamo per certo che il primo uomo e la prima donna che metteranno piede su Marte sono già nati. Dopo l’interessante presentazione dell’ospite della NASA il convegno è stato caratterizzato da un interessante dibattito fra i partecipanti con numerose domande tecniche, scientifiche e filosofiche. Siamo soli nell’universo? Quasi certamente no, ma con le tecnologie odierne non abbiamo alcuna possibilità di raggiungere il più vicino degli esopianeti rilevati. Missioni come Keplero sono costose? Certo, ma molto meno di quanto si pensi; 500 milioni di euro, ovvero una caffè e mezzo per ogni statunitense!

Il Center for Near Space incontra la NASA da sinistra: Vincenzo Torre, Roberto Paura, Gennaro Russo, Roger Hunter, Raffaele Savino

Il seminario ha rappresentato un’ulteriore dimostrazione della vivacità della comunità spaziale napoletana e della Campania che, nell’attuale tendenza dei giovani ad emigrare verso altri paesi, è un segnale evidente della necessità di ampliare la sfera di influenza non solo agli addetti ai lavori (ingegneri aerospaziali, professori, ricercatori, dottorati e studiosi Post doc) ma anche professionisti di altre discipline (fisici, architetti, umanisti), giovani in senso ampio, studenti delle scuole secondarie, entusiasti dello Spazio.

(Il Center for Near Space incontra la NASA. Da sinistra: Vincenzo Torre, Roberto Paura, Gennaro Russo, Roger Hunter, Raffaele Savino)

Gaia rivela Via Lattea in 3D

Gaia rivela Via Lattea in 3D

Gaia first sky mapLa missione Gaia, lanciata nel 2013 dall’Agenzia Spaziale Europea con l’obiettivo di ottenere una mappa tridimensionale della nostra galassia, non ha deluso le aspettative raccogliendo dati astrometrici di oltre un miliardo di stelle con una precisione duecento volte maggiore di quelli del suo predecessore Hipparcos e una definizione tre volte più dettagliata. E i primi risultati ottenuti sembrano confermare l’ipotesi che il piano galattico della nostra galassia sia a tilt, cioè inclinato, non perfettamente orizzontale. Da Gaia fluisce un’enorme mole di dati, che comprendono informazioni astrofisiche sulla luminosità nelle diverse bande spettrali che permetteranno di studiare in dettaglio la formazione, la dinamica, la chimica e l’evoluzione della Via Lattea. Sarà anche possibile individuare pianeti extrasolari e osservare asteroidi, galassie e quasars. Uno dei sei centri, veri e propri “stargate”, sparsi in Europa e delegati a raccogliere, analizzare e distribuire i dati di Gaia, sorge all’Altec di Torino ed è direttamente collegato all’ASI Science Data Center, situato a Roma nella sede dell’Agenzia Spaziale Italiana, che partecipa al processo insieme all’INAF per una quota molto importante. La prima parte dei dati, un catalogo composto da oltre 2 milioni di stelle viste nel primo anno di attività da luglio 2014 a settembre 2015, sono stati resi pubblici il 14 settembre nel corso di un collegamento con il centro ESA – ESAC di Madrid. Si tratta di un’enorme mole di informazioni fruibili da tutta la comunità scientifica e raccolti da sei centri europei.

“Oggi non vengono solo rilasciate le prime immagini della Via Lattea ripresa dal satellite Gaia – ha commentato la Responsabile Osservazione ed Esplorazione dell’Universo dell’ASI, Barbara Negri – ma soprattutto l’immensa mole di dati fin qui raccolti. Da adesso la comunità scientifica potrà avere accesso a questi dati che appaiono essere molto, molto promettenti”. “Questo primo rilascio dei dati raccolti – ha sottolineato Mario Lattanzi dell’INAF, PI italiano del DPAC – ci dimostra, dopo neanche 12 mesi di lavoro, che la missione Gaia ha già superato di tre volte la qualità dei risultati della precedente missione europea Hipparcos. Un primo importante successo che vede protagonisti anche gli scienziati italiani e dell’INAF”.

Osiris punta l’asteroide

Osiris punta l’asteroide

OSIRIS-REx-Spacecraft-at-BennuLa NASA si proietta verso un asteroide, grazie alla missione OSIRIS-REx che rientra nel programma New Frontiers con l’obiettivo di prelevare e riportare a Terra un campione di materiale. La sonda, il cui lancio è programmato per giovedì 8 settembre 2016 dal Kennedy Space Centre di Cape Canaveral alle ore 19:05 (1:05 di venerdì 9 settembre, ora italiana), raggiungerà nel 2018 l’asteroide Bennu, un corpo primitivo di 560 metri di diametro che orbita in prossimità della Terra e per questo rientra nella categoria dei Near Earth Asteroid, NEA. E` la prima missione NASA, dopo l’epopea delle missioni Apollo, in grado di riportare a Terra campioni di materiale. Insieme al Principal Investigator Dante Lauretta (Università dell’ Arizona) lavora un team di scienziati di USA, Canada, Francia, Gran Bretagna, Giappone e Italia, rappresentata da Elisabetta Dotto (INAF-Osservatorio di Roma) e John Robert Brucato (INAF-Osservatorio di Arcetri). OSIRIS-Rex (Origins, Spectral Interpretations, Resource Identification, Security – Regolith EXplorer) studierà in dettaglio le sue caratteristiche fisiche e gli effetti non gravitazionali dovuti alla radiazione solare. Una volta selezionata la regione da cui prelevare il campione, la sonda estrarrà un braccio robotico che estrarrà tra i 60 e 2000 grammi di materiale, facendo poi ritorno a Terra nel 2023. Sugli asteroidi si concentra l’interesse degli astrofisici in quanto il loro studio permette di investigare i processi che hanno guidato la formazione del Sistema Solare 4.5 miliardi di anni fa. Al suo ritorno la sonda metterà a disposizione per la prima volta un campione incontaminato prelevato dalla superficie di un corpo primitivo. Con OSIRIS-REx si apre un nuovo capitolo nello studio del materiale primordiale del Sistema Solare.

La missione viene realizzata con un importante contributo tecnologico italiano. A guidarla sarà un sensore stellare sviluppato da Leonardo-Finmeccanica nello stabilimento fiorentino di Campi Bisenzio. Il sensore Autonomous Star Tracker permetterà alla sonda di seguire la rotta prevista orientandosi con le stelle. Questo strumento è stato già utilizzato nelle missioni europee Rosetta e Exomars e quelle della NASA New Horizons che ha raggiunto Plutone nel luglio 2015 e Juno che si trova nell’orbita di Giove.

JUNO e le aurore di GIOVE

JUNO e le aurore di GIOVE

aurora gioviana crediti NASA_ASI_INAFArrivano le prime significative immagini di Giove raccolte dalla sonda JUNO della NASA, ottenute grazie ad uno dei due fondamentali strumenti italiani a bordo della sonda statunitense: il JIRAM (Jovian InfraRed Auroral Mapper), progettato per studiare la dinamica e la chimica delle aurore gioviane nel vicino infrarosso, e KaT (Ka-band Translator/Transponder), che analizzerà la struttura interna del pianeta, con l’obiettivo di mappare il campo di gravità di Giove.  Il primo flyby ravvicinato è, infatti, avvenuto con successo ed è stata la prima volta che JUNO si è trovata così prossima a Giove da quando è entrata nella sua orbita. Il passaggio radente del 27 agosto è il capofila di manovre analoghe – ben 35 – programmate per tutto il corso della missione, la cui vita operativa avrà termine a febbraio 2018. Volteggiando ad un velocità di oltre 200mila chilometri orari, la sonda ha puntato sul quinto pianeta del Sistema Solare il suo set di strumenti scientifici ed ha iniziato a raccogliere preziose informazioni che da lunedì a giovedì tutto il team scientifico di JUNO ha analizzato a San Antonio in Texas per avviare le prime analisi comparate e correlate dei dati provenienti dai vari strumenti della sonda. «JIRAM – spiega Alberto Adriani ricercatore dell’INAF e PI dello strumento – guarda sotto la pelle di Giove dandoci immagini ravvicinate del pianeta nell’infrarosso. Queste prime immagini dei poli nord e sud di Giove ci stanno rivelando aree calde e fredde del pianeta che non sono mai state osservate prima. Nonostante avessimo saputo che le prime immagini infrarosse del polo sud avrebbero rivelato l’aurora meridionale del pianeta, siamo stati affascinati nel vederla per la prima volta. Nessun altro strumento, sia da terra che dallo spazio, è mai stato in grado prima d’ora di osservare l’aurora australe nel modo come la vediamo in questa immagine. Vediamo un’aurora molto luminosa e strutturata. L’alto livello di dettaglio delle immagini ci potrà dire di più sulla sua morfologia e la sua dinamica».
«I risultati delle calibrazioni di JIRAM – dice Barbara Negri Responsabile dell’Unità Osservazione dell’Universo dell’ASI – fatte ad inizio Agosto hanno dimostrato che lo strumento si comporta come aspettato ed è iniziata l’attività scientifica a seguito del primo flyby ravvicinato di Giove. Si tratta di un’ulteriore conferma della capacità dei team italiani sia scientifici che industriali di realizzare questo tipo di strumentazione, che è di fondamentale importanza per l’esplorazione del nostro sistema solare».

Il viaggio della sonda è iniziato poco più di cinque anni fa, il 5 agosto 2011, e il suo arrivo a destinazione, l’orbita di Giove, è avvenuto lo scorso 4 luglio (in Italia era l’alba del giorno successivo) dopo un tragitto di circa tre miliardi di chilometri. Scopo di JUNO è analizzare le caratteristiche di Giove come rappresentante dei pianeti giganti. Il ‘peso massimo’ del Sistema Solare può infatti offrire dati di fondamentale importanza non solo per approfondire le origini del Sistema stesso, ma anche per analizzare quelle dei sistemi planetari che man mano si vanno scoprendo intorno ad altre stelle, con particolare riferimento a quegli esopianeti di massa simile a Giove. Il cuore di JUNO è l’italianissimo JIRAM (Jovian InfraRed Auroral Mapper), finanziato dall’ASI, realizzato da Leonardo-Finmeccanica e operato sotto la responsabilità scientifica dell’Istituto di Astrofisica e Planetologia Spaziali (IAPS) dell’INAF. L’altro componente italiano di Juno è KaT (Ka-Band Translator) uno strumento di radioscienza realizzato dall’Università La Sapienza di Roma, realizzato da Thales Alenia Space Italia (Una società Thales/Leonardo-Finmeccanica) sempre con il supporto di ASI.

Le sei facce di Cerere

Le sei facce di Cerere

ahuna-monsLa missione spaziale Dawn sul pianeta nano Cerere ha prodotto una serie di risultati, dalla presenza di ghiaccio d’acqua al criovulcanesimo, che hanno trovato ampio spazio su Science. Dei sei pubblicati, due in particolare si basano sui dati raccolti dallo spettrometro italiano VIR, fornito dall’Agenzia Spaziale Italiana sotto la guida scientifica dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, e vedono fra i coautori numerosi ricercatori dell’INAF IAPS di Roma. In pratica, si tratta di sei inattese “facce” di Cerere illustrate in altrettanti studi pubblicati, tutti in un colpo solo, sull’ultimo numero di Science. Numero del quale il pianeta nano si è così aggiudicato anche la copertina. Dai risultati dei sei studi emerge il ritratto d’un mondo di roccia e ghiaccio nel quale si scorgono i segni di crateri, di fratture, di criovulcani, forse persino di una debole atmosfera e che, nel complesso, delineano l’attività geologica che ne ha caratterizzato il passato recente. I sei studi derivano tutti da dati raccolti grazie alla missione Dawn della NASA. Tutti gli articoli sono firmati anche da ricercatrici e ricercatori, o da associati, dell’Istituto di Astrofisica e Planetologia Spaziali (IAPS) dell’INAF di Roma, e due in particolare sono specificatamente dedicati ai risultati delle osservazioni dello spettrometro italiano VIR (Visual and Infrared Spectrometer) a bordo della sonda: strumento chiave per la comprensione di un oggetto come Cerere, VIR è stato fornito dall’agenzia Spaziale Italiana (ASI) sotto la guida scientifica dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF). Partiamo dunque da questi ultimi per scoprire il volto inedito del più grande oggetto celeste fra quelli che popolano la cosiddetta “fascia principale”, la cintura d’asteroidi che si trovano fra le orbite di Marte e Giove.

C’è ghiaccio d’acqua nel cratere Oxo

Lo studio guidato da Jean-Philippe Combe del Bear Fight Institute di Winthrop (USA) dimostra la presenza di acqua ghiacciata in superficie. «Già si sapeva della presenza di ghiaccio d’acqua, ma ci si attendeva che su Cerere il ghiaccio in superficie fosse instabile lontano dai poli: trovarlo proprio lì è stata dunque una sorpresa», spiega Maria Cristina De Sanctis, coautrice dello studio e ricercatrice presso l’INAF IAPS di Roma, nonché responsabile di VIR. Gli scienziati del team se ne sono accorti utilizzando VIR in cinque occasioni, nel corso del 2015, per analizzare – nel visibile e nel vicino infrarosso – una zona estremamente riflettente del cratere Oxo, che si trova a circa 42° Nord (la latitudine di Roma, per intenderci). I dati rivelano, in un’area di meno di un chilometro quadrato, la presenza di materiali contenenti acqua: molto probabilmente ghiaccio d’acqua, scrivono gli autori, anche se potrebbe trattarsi di minerali idrati. Ora, le condizioni ambientali presenti su Cerere fanno sì che il ghiaccio d’acqua non riesca a permanere in superficie per più di qualche decina di anni a basse latitudini. Di conseguenza, i risultati di Dawn si potrebbero spiegare solo con un’esposizione o una formazione d’acqua in tempi recenti. Tra le varie ipotesi avanzate dagli autori dello studio – tra i quali, oltre a De Sanctis, anche altri tre ricercatori dell’INAF IAPS di Roma: Federico Tosi, Filippo Giacomo Carrozzo e Andrea Raponi – quella ritenuta più plausibile è l’esposizione di materiali ricchi d’acqua, vicini alla superficie, a seguito d’un impatto o di uno smottamento.

copertina-scienceDistribuzione dei diversi materiali sulla crosta

In un secondo studio, guidato questa volta da Eleonora Ammannito dell’Università della California a Los Angeles, viene analizzata la distribuzione su Cerere dei minerali fillosilicati argillosi, che contengono magnesio e ammonio. In questo caso i ricercatori – fra i quali ben 14 dell’INAF IAPS di Roma: Maria Cristina De Sanctis, Mauro Ciarniello, Alessandro Frigeri, Filippo Giacomo Carrozzo, Andrea Raponi, Federico Tosi, Fabrizio Capaccioni, Maria Teresa Capria, Sergio Fonte, Marco Giardino, Andrea Longobardo, Gianfranco Magni, Ernesto Palomba e Francesca Zambon – hanno utilizzato la spettrometro VIR per determinare la composizione di questi fillosilicati da una parte all’altra del pianeta nano, risultata abbastanza uniforme, mentre è emersa notevole varietà nella loro abbondanza. Poiché questi minerali, per formarsi, richiedono la presenza di acqua, gli autori avanzano l’ipotesi che il materiale presente in superficie abbia subito alterazioni a seguito di un processo a larga scala nel quale l’acqua abbia avuto un ruolo fondamentale.

Un’atmosfera per Cerere

Dallo studio guidato dal principal investigator di Dawn, Christopher Russell, anch’egli dell’Università della California a Los Angeles, emerge un risultato sorprendente: Dawn sembra aver rilevato, attorno al pianeta nano, una debole e precaria atmosfera. I dati raccolti dallo strumento GRaND (Gamma Ray and Neutron Detector) mostrano come Cerere abbia accelerato a energie molto alte, per un periodo di circa sei giorni, gli elettroni del vento solare. Un fenomeno che, in teoria, potrebbe essere spiegato dall’interazione tra le particelle energetiche del vento solare e molecole atmosferiche. L’esistenza di un’atmosfera temporanea, notano gli autori dello studio, fra i quali di nuovo figura Maria Cristina De Sanctis dell’INAF IAPS di Roma ed altri associati INAF, sarebbe fra l’altro coerente con la presenza di vapore acqueo registrata su Cerere quattro anni fa dal telescopio spaziale Herschel. Gli elettroni rilevati da GRaND potrebbero infatti essere stati prodotti dall’impatto del vento solare sulle molecole d’acqua osservate da Herschel, ma gli scienziati stanno anche cercando anche altre spiegazioni.

Criovulcanesimo, ghiacci e crateri

Dei tre studi rimanenti, tutti con autori INAF o associati, uno riguarda l’attività criovulcanica, e in particolare una formazione geologica chiamata Ahuna Mons – una montagna con la base ellittica e la sommità concava – che secondo lo studio guidato da Ottaviano Ruesch, del Goddard Space Flight Center della NASA, rappresenterebbe appunto l’esempio di un criovulcano: un vulcano che erutta non silicati bensì un liquido fatto di sostanze volatili, come l’acqua. Un quinto studio, condotto da Harald Hiesinger dell’Università di Münster, in Germania, analizza i crateri da impatto presenti su Cerere, dai quali si evince che il guscio esterno del pianeta nano non è composto né di puro ghiaccio né di pura roccia, bensì di una combinazione dei due materiali. Infine, lo studio guidato da Debra Buczkowski, della Johns Hopkins University, rivolge l’attenzione alle diverse caratteristiche geologiche osservate in superficie, fra le quali crateri, cupole (o duomi), flussi lobati e strutture lineari. Se alcune di queste caratteristiche sono il frutto di impatti, altre sembrano piuttosto suggerire processi geologici quali la fagliazione subsuperficiale. Alcune poi sembrerebbero dovute a processi criomagmatici o ciovulcanici, prodotti dunque da ghiaccio fuso che fuoriesce dal sottosuolo.

 

Più giovani le prime stelle

Più giovani le prime stelle

ESA_Planck_ReionisationLe prime stelle dell’universo si formarono quando, dal Big Bang, erano già trascorsi molti più anni di quanto indicassero le precedenti osservazioni della radiazione di fondo cosmico. Lo ha rivelato il satellite Planck dell’Agenzia Spaziale Europea. Dalla nuova analisi emerge anche che queste stelle primordiali sono sufficienti a rendere conto del processo noto come “reionizzazione”, completato per metà quando l’Universo aveva 700 milioni di anni. Uno dei compiti principali affidato alle osservazioni del telescopio spaziale Planck dell’ESA, a cui l’Italia ha contribuito grazie al rilevante supporto dell’Agenzia Spaziale Italiana e al significativo contributo scientifico dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, è risalire al momento in cui si accesero le prime stelle e capire in che modo e in quale epoca avvenne la cosiddetta “reionizzazione” dell’universo

Per comprendere cos’hanno scoperto di nuovo gli scienziati nei dati di Planck occorre però un lungo passo indietro, a quando ancora l’universo non era popolato – com’è ora – da una moltitudine di stelle e galassie. Partiamo dunque dall’inizio, o quasi: 13.8 miliardi di anni fa, a una manciata di secondi dal Big Bang, l’universo altro non era se non un caldo e denso brodo primordiale di particelle. Per lo più elettroni, protoni, neutrini e fotoni (le “particelle” di luce). Così denso da comportarsi come una nebbia impenetrabile e opaca, dove le particelle di luce non riuscivano a muoversi senza entrare subito in collisione con gli elettroni.

La prima svolta avviene dopo circa 380 mila anni, allorché, essendosi raffreddato e rarefatto a sufficienza, l’universo diventa finalmente “trasparente”: le collisioni tra particelle si fanno sporadiche e i fotoni possono per la prima volta viaggiare liberi attraverso il cosmo, dando origine a quella “luce fossile” – la radiazione cosmica di fondo a microonde, o CMB – osservata oggi, a distanza di miliardi di anni, da telescopi come Planck. All’origine della trasparenza c’è la combinazione di elettroni e protoni in atomi d’idrogeno: per la prima volta nella storia del cosmo, la materia si trova in uno stato elettricamente neutro. Una fase destinata a durare poco. Quando, dopo alcune centinaia di milioni di anni, quegli atomi cominciano ad assemblarsi fra loro dando origine alla prima generazione di stelle dell’universo, ecco infatti che la luce di quelle stesse stelle finisce per separare di nuovo gli atomi neutri nelle particelle di cui sono fatti: elettroni e protoni. È quella che gli scienziati chiamano l’epoca della reionizzazione. In un arco di tempo relativamente breve, la maggior parte della materia presente nell’universo torna così a essere quasi completamente ionizzata, e tale rimarrà – a parte in rari luoghi isolati – fino ai giorni nostri.

Rieccoci dunque alla domanda che si sono posti gli scienziati di Planck: quali sono, esattamente, i confini temporali di questo processo? Le osservazioni di galassie distanti, quelle con al proprio centro un buco nero supermassiccio, mostrano che all’età di 900 milioni di anni l’universo era già stato completamente reionizzato. Non c’è invece accordo sul momento di partenza, assai più difficile da determinare. Ed è qui che entra in gioco lo studio della radiazione cosmica di fondo. «La CMB ci può dire quando ebbe inizio l’epoca della reionizzazione», spiega infatti Jan Tauber, project scientist di Planck all’ESA, «e quando si formarono le prime stelle nell’Universo». A rendere possibile queste misure è la cosiddetta “polarizzazione” della CMB: una caratteristica della “luce fossile” dovuta al fatto che i fotoni della radiazione di fondo cosmico hanno rimbalzato contro gli elettroni. Fenomeno che accadeva di continuo nel brodo primordiale, prima che la CMB venisse liberata, ma anche successivamente, in particolare dopo la reionizzazione, quando appunto la luce dalle prime stelle ha rimesso in gioco gli elettroni liberi. «È nelle impercettibili fluttuazioni della polarizzazione della CMB che possiamo osservare l’influenza del processo di reionizzazione e risalire così all’epoca in cui ha avuto inizio», dice Tauber.

Che età aveva, dunque, l’universo quando cominciò a reionizzarsi? Una prima stima effettuata sui dati del satellite WMAP della NASA, risalente al 2003, indicava un’epoca assai remota, attorno ai 200 milioni di anni dopo in Big Bang. Un valore così basso da lasciare perplessi, anche perché non c’è alcuna prova che già allora esistessero le prime stelle. Quella stima venne poi corretta al rialzo dai successivi dati sempre di WMAP, che la portarono ad almeno 450 milioni di anni. Un’epoca ora compatibile con la formazione delle prime stelle, già che ne sono state osservate di risalenti a 300-400 milioni di anni dopo il Big Bang, ma troppo prematura perché quelle stelle da sole potessero aver reionizzato l’universo, al punto da costringere i cosmologi a ipotizzare il coinvolgimento di sorgenti più esotiche. Ma ecco che, analizzando le prime mappe della polarizzazione del fondo cosmico prodotte dalla collaborazione Planck, l’epoca della reionizzazione è stata ulteriormente posticipata. «Già durante la conferenza di Ferrara, nel dicembre 2014», ricorda infatti Reno Mandolesi, associato INAF, responsabile dello strumento LFI di Planck ed ex componente del CdA dell’ASI, «gli straordinari risultati della mappa di polarizzazione della CMB misurata dallo strumento LFI avevano mostrato che la fine dell’età oscura era avvenuta quando l’universo aveva circa 550 milioni di anni e l’accensione delle prime stelle era la sola responsabile della reionizzazione, senza la necessità di dover ricorrere a sorgenti di energia ignota introdotte ad hoc».

Oggi è infine il turno dei dati raccolti dall’altro strumento di Planck, quello ad altra frequenza (HFI), il più sensibile che ci sia per l’analisi di questo fenomeno. E le mappe di HFI dimostrano che la reionizzazione ha avuto inizio ancora più tardi, più in là di quanto sia mai stato ritenuto. «Le misure ad alta sensibilità di HFI mostrano chiaramente che la reionizzazione è stata un processo assai rapido, cominciato piuttosto tardi nella storia cosmica. Quando l’universo è giunto a essere per metà reionizzato, già aveva circa 700 milioni di anni», spiega Jean-Loup Puget dell’Institut d’Astrophysique Spatiale di Orsay, in Francia, responsabile dello strumento HFI di Planck. «Abbiamo inoltre confermato che non è stato necessario l’intervento di nient’altro, oltre alle prime stelle, per reionizzare l’Universo», aggiunge Matthieu Tristram dell’acceleratore lineare di Orsay, in Francia, anch’egli membro della collaborazione Planck.

«La mappa di polarizzazione del più sensibile strumento HFI, elaborata nel corso degli ultimi mesi, ha confermato e migliorato entro gli errori di misura, ma con maggiore precisione, il risultato di LFI. I due risultati non sono, di fatto, in contraddizione e sono totalmente compatibili se si tiene conto delle incertezze statistiche. Al contrario, confermano le straordinarie capacità di questo meraviglioso satellite, Planck, che ha riscritto e continua a riscrivere in dettaglio e con grande precisione la storia della cosmologia», conclude Mandolesi. «Il prossimo anno rilasceremo pubblicamente i dati e le mappe finali di Planck, per far sì che ogni cosmologo o astrofisico, anche al di fuori del Consorzio Planck, possa usarli per arrivare sperabilmente a nuovi importanti risultati».