AMS (Alpha Magnetic Spectrometer), il più grande e complesso esperimento scientifico in funzione da maggio 2011 a bordo della Stazione Spaziale Internazionale, ha sequenziato milioni di particelle ritenute di sicuro interesse per la caccia alla materia oscura e tra esse 400.000 sono positroni, cioè elettroni con carica positiva. Si tratta della più rilevante quantità di antimateria finora osservata. Samuel Ting, del Massachusetts Institute of Technology (MIT) e Premio Nobel per la Fisica 1976, responsabile internazionale dell’esperimento AMS, ritiene che nei prossimi mesi lo spettrometro sarà in grado di stabilire se questi positroni sono un segnale effettivo della materia oscura o sono da ricondurre ad altra origine cosmica. Questi primi risultati della ricerca in orbita sono stati annunciati il 3 aprile 2013 al Cern, alla Nasa e pubblicati su Physical Review Letters.
Dalla sua installazione all’esterno della ISS, avventura il 19 maggio 2011 fino ad oggi, AMS-02 ha misurato oltre 30 miliardi di raggi cosmici aventi energie fino a migliaia di miliardi di elettronvolt. Lo ha potuto fare grazie ad una strumentazione basata su un magnete permanente equipaggiato da una serie di rivelatori di particelle di precisione in grado di identificare i raggi cosmici provenienti dalle zone più remote dello spazio che lo attraversano.
Tra queste, l’articolo in pubblicazione ne considera 6,8 milioni: il campione statistico più grande mai raccolto di elettroni e antielettroni (positroni) registrati nell’intervallo di energia compreso tra 0,5 e 350 GeV. AMS-02 ha dunque contato circa 400.000 positroni – un record di antiparticelle inedito tra le missioni spaziali – selezionati rispetto al fondo di protoni grazie alle misure accurate e ridondanti ottenute dai vari strumenti che lo compongono.
La frazione di positroni (rapporto tra il flusso di positroni e il flusso totale di positroni ed elettroni) nei raggi cosmici primari misurata da AMS-02 mostra un minimo intorno ai 10 GeV, ad energie superiori a 250 GeV lo spettro sembra appiattirsi. Inoltre, lo spettro della frazione di positroni non presenta nessuna struttura né in funzione dell’energia, né del tempo, né mostra anisotropia angolare, indicazione del fatto che i positroni di alta energia non provengono da una direzione preferenziale dello spazio.
L’Italia ha collaborato in maniera sostanziale alla realizzazione di AMS – nonché alle operazioni in orbita e al trattamento dei dati a terra – con l’Agenzia Spaziale Italiana e Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. Nel corso della sua missione di lunga durata sulla ISS, AMS registrerà 16 miliardi raggi cosmici ogni anno, trasmettendoli a terra per l’analisi dati a cura della Collaborazione AMS. “La nostra curiosità ora è capire l’origine di queste particelle”, spiega Roberto Battiston, fisico dell’INFN e dell’università di Trento che di Ams è numero due. “Può darsi che provengano da un tipo di stella chiamato pulsar all’interno della nostra galassia – prosegue Battiston – ma potrebbero anche essere una traccia di quel fenomeno ancora sconosciuto che è la materia oscura”.
“I dati di AMS sono di grande interesse – spiega Piergiorgio Picozza, fisico dell’INFN e dell’Università di Roma Tor Vergata, nonché spokesman di PAMELA – e mostrano come le misure di precisione siano oramai parte della Fisica delle Astroparticelle nello Spazio”. “Già l accenno di appiattimento dello spettro alle alte energie – conclude il professor Picozza – potrebbe essere il primo indizio di prossime affascinanti sorprese: PAMELA, Fermi ed AMS sono ammirevoli esempi di successo della Fisica Spaziale Italiana”.
La prima pubblicazione dell’esperimento rappresenta una pietra miliare per la Collaborazione internazionale AMS. Centinaia di scienziati, ingegneri, tecnici e studenti provenienti da tutto il mondo hanno lavorato insieme per oltre 18 anni per fare di AMS una realtà. La Collaborazione comprende 16 paesi in Europa, Asia e Nord America (Finlandia, Francia, Germania, Italia, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna, Svizzera, Romania, Russia, Turchia, Cina, Corea, Taiwan, Messico e Stati Uniti) sotto guida del premio Nobel Samuel Ting, del MIT. La Collaborazione AMS opera in stretto contatto con l’eccellente team della NASA dedicato al progetto AMS presso il Johnson Space Center, collaborazione che si è estesa per tutta la durata del progetto.
Un team internazionale di astronomi guidati da ricercatori dell’INAF presenta i primi risultati di un grande progetto che sta ricostruendo la struttura a grande scala dell’Universo quando questo aveva circa metà della sua età attuale. Misurando la distanza di 55.000 galassie con il VLT dell’ESO, i ricercatori hanno prodotto una mappa della distribuzione di materia con un’estensione e un dettaglio mai raggiunti prima a quest’epoca cosmica. Le prime analisi di queste mappe e il loro confronto con l’Universo odierno, forniscono tra le altre cose una misura del tasso di crescita delle strutture in accordo con le previsioni della Relatività Generale. Questo conferma la necessità di considerare la presenza di energia oscura per spiegare l’espansione accelerata dell’Universo che osserviamo oggi. Inoltre, il grande volume esplorato ha permesso già di ottenere la più precisa stima mai ottenuta dell’abbondanza di galassie di grande massa a quest’epoca.
Qual era la struttura dell’Universo nel passato? Com’erano distribuite le galassie che oggi osserviamo in gruppi, ammassi e filamenti che circondano grandi zone vuote, quando l’Universo era più giovane? E’ la crescita della struttura compatibile con le previsioni della Relatività Generale? E come sono evolute le galassie stesse, incastonate come gioielli luminosi nel reticolo cosmico di materia oscura? Sono tutte domande fondamentali per capire come siamo arrivati a ciò che osserviamo ora nello spazio intorno a noi. Domande che oggi cominciano ad avere risposte convincenti, grazie ai primi risultati scientifici realizzati nell’ambito del progetto VIPERS (VIMOS Public Extragalactic Redshift Survey).
Il progetto è sviluppato da un team internazionale coordinato da ricercatori dell’INAF e utilizza lo spettrografo VIMOS installato al Very Large Telescope (VLT) dell’ESO per ricostruire la distribuzione spaziale delle galassie quando l’Universo aveva circa metà dell’età attuale, ovvero attorno a 7 miliardi di anni. La novità del progetto è nella combinazione senza precedenti delle dimensioni del volume esplorato e del dettaglio con cui la struttura a grande scale viene ricostruita. Misurando le distanze di circa 100.000 galassie in un volume di quasi due miliardi di anni-luce cubici se ne ricostruisce la distribuzione tridimensionale. I risultati presentati in una serie di articoli inviati alla rivista Astronomy&Astrophysics e pubblicati online su arxiv.org si basano sulle prime 55.000 galassie finora osservate. “È il primo traguardo di un lavoro iniziato nel 2008 e che richiederà altri 3 anni per essere completato” commenta Luigi Guzzo, dell’INAF – Osservatorio Astronomico di Brera, coordinatore generale del progetto.
Il primo e più spettacolare risultato fornito da questi dati è nelle mappe della distribuzione delle galassie basate sulle nuove misure di distanza che mostrano come già a quell’epoca l’Universo fosse organizzato in grandi strutture filamentose, che connettono gli ammassi di galassie e circondano ampie zone vuote. È il cosiddetto Cosmic Web, la ragnatela cosmica che i ricercatori spiegano come il risultato dell’amplificazione da parte della forza di gravità di piccole perturbazioni nell’Universo primordiale. La struttura è analoga a quella osservata nell’Universo più vicino a noi, ma rappresenta un fotogramma intermedio del film cosmico, scattato circa 7 miliardi di anni fa e per di più dettagliatissimo e molto esteso. Un fondamentale passo in avanti che ci permette di avere a disposizione, per la prima volta, una visione d’assieme dell’Universo a queste epoche. Grazie all’estensione di queste mappe, il team di VIPERS è stato in grado di produrre già con il campione attuale dei risultati che migliorano significativamente la nostra conoscenza sia delle proprietà globali della popolazione di galassie, sia della loro distribuzione spaziale a grande scala.
Il livello di disomogeneità alle diverse scale (galassie, ammassi di galassie, filamenti) è infatti strettamente legato alle proprietà delle componenti fondamentali dell’Universo. Quanta e quale materia oscura è necessaria per spiegare ciò che vediamo? Che cosa produce l’accelerazione dell’espansione che oggi osserviamo (la cui scoperta, ricordiamo, è valsa il Premio Nobel nel 2011)? È la cosiddetta energia oscura oppure in realtà stiamo usando una teoria non corretta per descrivere l’Universo su queste scale? Uno dei principali obiettivi di VIPERS riguarda proprio queste problematiche: il processo di aggregazione delle strutture sotto l’effetto della gravità produce dei moti ordinati delle galassie, che dipendono dal comportamento della gravità a grandi scale. Usando un metodo originariamente proposto da membri dello stesso team, uno dei lavori in fase di pubblicazione mostra che la distribuzione e le velocità delle galassie sono compatibili con le previsioni della Relatività Generale e confermano quindi la necessità di inserire una forma di energia oscura nelle relative equazioni, per spiegare l’espansione accelerata.
Nel contempo, VIPERS è stata progettata in modo da fornire un censimento completo della popolazione di galassie luminose entro il volume esplorato. In altre parole, oltre a ricostruire l’ambiente in cui le galassie si formano su grande scala, i dati di VIPERS permettono di risalire alle proprietà delle singole galassie distribuite lungo i filamenti e negli ammassi, ovvero informazioni preziose come la loro luminosità, il colore della loro luce e la massa totale delle stelle che le compongono. Un altro degli articoli in corso di pubblicazione presenta una misura molto precisa del numero di galassie di grande massa già presenti nell’Universo quando questo aveva 7 miliardi di anni. “Avere a disposizione queste informazioni per campioni di centinaia di migliaia di galassie – come sarà il caso di VIPERS al termine del progetto tra tre anni – permette di identificare nel dettaglio i processi e le leggi fisiche che ne regolano l’evoluzione, informazioni che possono essere fraintese se si usano campioni troppo piccoli e non rappresentativi di simili oggetti celesti” commenta Micol Bolzonella dell’INAF – Osservatorio Astronomico di Bologna, che nel progetto coordina gli studi di evoluzione delle galassie. “Un po’ come succede quando una proiezione elettorale si basa su un gruppo di persone troppo piccolo e non rappresentativo della popolazione”. VIPERS permette un salto di qualità da questo punto di vista, portando la precisione delle misure ad un livello paragonabile a quello raggiunto nell’Universo locale.
Calcolata da un team di ricercatori, tra cui due astronomi italiani associati INAF, la distanza della Grande Nube di Magellano con un’incertezza pari solo al due per cento. Un risultato mai raggiunto prima, che permetterà di stimare con più precisione sia la velocità di espansione che l’età dell’universo.
È la più accurata misura di distanza mai ottenuta della Grande Nube di Magellano (Large Magellanic Cloud, LMC), la seconda galassia più vicina alla nostra, ed è stata realizzata da un team internazionale di ricercatori tra cui due astronomi italiani associati INAF. Il valore che emerge dallo studio, pari a 162.000 anni luce, è in accordo con stime simili effettuate da altri gruppi di ricerca, ma il principale vantaggio della nuova misura è quello di essere caratterizzata da un livello di incertezza molto piccolo, pari solo al due per cento, ossia meno della metà della migliore stima effettuata in precedenza. Questa misura super precisa è fondamentale per astronomi e cosmologi in quanto la distanza della Grande Nube di Magellano è il primo ‘gradino’ della ‘scala delle distanze cosmiche’. Conoscere con precisione questo valore significa ridurre sensibilmente l’errore sulla distanza di oggetti celesti assai lontani e in ultima analisi riuscire a stimare più accuratamente, tramite la costante di Hubble, la velocità di espansione e l’età dell’universo.
È stato un lavoro lungo e laborioso quello del team, che ha passato al setaccio la sterminata mole di dati di quattordici anni di osservazioni condotte nell’ambito del progetto OGLE (Optical Gravitational Lensing Experiment). Oltre 35 milioni di stelle contenute nel database sono state controllate, permettendo di individuare dodici sistemi stellari particolari, ovvero del tipo binario ad eclisse, dei quali otto sono stati scelti per ulteriori osservazioni con lo spettrografo MIKE installato al telescopio Magellan Clay all’osservatorio Las Campanas in Cile e con lo spettrografo HARPS operativo presso il telescopio da 3,6 metri dell’ESO a La Silla, sempre in Cile. Un ulteriore monitoraggio durato ben otto anni. Ma l’impegno è stato finalmente ripagato.
“Essere riusciti a individuare e a misurare i due parametri fondamentali di questi sistemi, ovvero le loro variazioni di luminosità e velocità radiale, ci ha permesso di ottenere una distanza molto precisa e soprattutto non basata su assunzioni teoriche sulle loro proprietà e senza l’ausilio di un modello matematico della struttura geometrica della galassia che li ospita” dice Giuseppe Bono, dell’Università di Roma “Tor Vergata” e associato INAF che insieme al suo collega Pier Giorgio Prada Moroni, dell’Università di Pisa e anch’egli associato INAF, ha partecipato allo studio, pubblicato nell’ultimo numero della rivista Nature. “Poiché la Grande Nube di Magellano è così vicina a noi, è stata da sempre oggetto di misure di distanza con i più svariati metodi e se ne contano finora svariate centinaia. Siamo però davvero soddisfatti di essere riusciti ad ottenere un valore così affidabile e preciso, con un’incertezza solo del due per cento, che è meno della metà della migliore tra tutte le stime fatte in precedenza”.
Grazie a questo lavoro si prefigura un sensibile miglioramento della stima anche della costante di Hubble, uno dei parametri cosmologici fondamentali che descrivono il processo di espansione dell’universo e, di conseguenza, una stima indipendente della sua età. “Sfruttando questa misura, saremo in grado di ottenere il valore della costante di Hubble con una precisione del 2 o 3 per cento, mentre oggi è del 5-10 per cento” continua Bono. “Potremo così conoscere meglio come sta evolvendo il nostro universo e quindi, cosa altrettanto importante, ricavare con maggiore accuratezza la stima della sua età che potrà essere confrontata con le stime di età degli ammassi globulari”.
Osservati per la prima volta con certezza gli effetti estremi di un buco nero supermassiccio in rapida rotazione sulla radiazione X emessa dalla regione intorno ad esso. Un risultato di grande importanza per testare le predizioni della Teoria della Relatività Generale di Einstein e che fornisce agli astrofisici informazioni fondamentali per ricostruire la storia dell’evoluzione dei buchi neri di grande massa e delle galassie che li ospitano. A guidare il team internazionale di ricercatori che ha realizzato lo studio, pubblicato nell’ultimo numero della rivista Nature, è Guido Risaliti, dell’INAF-Osservatorio Astrofisico di Arcetri.
È grazie alla sinergia di due degli osservatori spaziali oggi più avanzati per lo studio dell’astrofisica dell’estremo, XMM-Newton dell’Agenzia Spaziale Europea e NuSTAR della NASA che sono stati finalmente registrati con certezza gli effetti della vorticosa rotazione di un buco nero gigante, avente una massa di milioni di volte quella del nostro Sole e dei suoi poderosi effetti che si manifestano sulla radiazione X che è emessa vicino ad esso. Effetti che sono dovuti all’eccezionale campo gravitazionale del buco nero e che trovano un ottimo accordo con le predizioni fornite dalle equazioni della Teoria della Relatività Generale di Albert Einstein applicate a questo esotico oggetto celeste. Si risolve così un enigma che si protraeva da più di venti anni. Che cioè a provocare la variazione pronunciata di alcune caratteristiche della radiazione nei raggi X emessa dai buchi neri di grande massa fossero gli effetti estremi prodotti dalla forza di gravità generata dagli stessi buchi neri in rapida rotazione.
“Prima di queste osservazioni combinate, non potevamo dire con certezza se la deformazione dei profili della radiazione X dei buchi neri già osservati con XMM-Newton fossero dovuti a fenomeni relativistici legati a rapidissima rotazione o invece a nuvole di gas e polveri presenti attorno ad essi” spiega Guido Risaliti, ricercatore dell’INAF-Osservatorio Astrofisico di Arcetri, che ha guidato la ricerca condotta insieme a colleghi statunitensi, inglesi e danesi pubblicata nell’ultimo numero della rivista Nature. “I modelli teorici che descrivono e riproducono l’andamento dello spettro dei raggi X nei due diversi scenari fornivano, per entrambi, risultati in grado di spiegare piuttosto bene gli andamenti registrati”.
A superare questa incertezza hanno contribuito le prime osservazioni del nuovo telescopio spaziale NuSTAR lanciato dalla NASA nel giugno scorso. Come ‘bersaglio’ iniziale NuSTAR ha puntato la galassia NGC 1365, distante circa 60 milioni di anni luce che ospita nel suo centro un buco nero di grande massa: circa 2 milioni di volte quella del nostro Sole, già scandagliato nei raggi X da XMM-Newton. Poiché NuSTAR è in grado di registrare radiazione in una frequenza più alta rispetto a XMM, è riuscito ad aggiungere il “colore mancante” nello spettro di emissione X del buco nero, decisivo per ottenere una spiegazione univoca di quanto osservato. “Le osservazioni di NuSTAR del buco nero al centro della galassia NGC 1365, insieme a quelle di XMM ci hanno permesso di affermare con certezza che quel ‘mostro’ ruota a una velocità elevatissima, vicina a quella massima consentita dalla Teoria della Relatività Generale di Einstein” prosegue Risaliti.
Un risultato, quello ottenuto per NGC 1365, di primaria importanza per migliorare la comprensione della fisica dei buchi neri e per poter testare le predizioni fornite dalla Teoria della Relatività, ma non solo. I buchi neri supermassicci, che possiedono masse di milioni o addirittura miliardi di volte quella del Sole, hanno infatti raggiunto questa ‘stazza’ nel tempo, secondo processi molto diversi tra loro: per accrescimento continuo e ordinato, ‘risucchiando’ progressivamente materiale da stelle e gas circostanti oppure in modo più violento, dallo scontro e fusione di buchi neri più piccoli. In base a queste differenti storie evolutive, si può prevedere una differente velocità di rotazione del buco nero risultante. Quindi, misurare la vorticosità di un buco nero fornisce informazioni fondamentali sulla storia del suo accrescimento e quindi di tutta la galassia che lo ospita.
“Nel caso di NGC 1365 riteniamo che questo accrescimento sia avvenuto in modo continuo, tramite il progressivo accrescimento di materiale che spiraleggiando attorno al buco nero gli trasferisce energia, accelerandone la sua rotazione” prosegue Risaliti. “Adesso ci aspetta ancora tanto lavoro e non vediamo l’ora di sfruttare questa tecnica su altri buchi neri, forti dei risultati precedentemente acquisiti dal solo satellite europeo XMM-Newton di cui adesso ci possiamo fidare di più, in quanto abbiamo verificato che l’interpretazione basata sulla Relatività Generale è quella corretta”.
Scene da apocalisse per una meteora che ha attraversato il cielo russo da nord-est verso sud-ovest. Mentre tutto il mondo era stato rassicurato sul passaggio ravvicinato ma non preoccupante dell’asteroide 2012 DA14, transitato a 27.700 km dalla Terra incrociando l’orbita lunare, la Russia ha vissuto l’imprevista e catastrofica pioggia causata dalle schegge di un meteorite, indicativamente di circa 10 tonnellate, frammentatosi a contatto con l’atmosfera producendo frammenti incandescenti che hanno illuminato gli Urali poco dopo le 7 del mattino del 15 febbraio 2013. La città più colpita è quella di Cheliabinsk, ma l’area interessata dalla caduta dei bolidi comprende altre cinque città della stessa regione e si estende fino al confine settentrionale del Kazakhstan. Un evento che ha colto di sorpresa perfino il sistema di controllo dello spazio russo e provocato 1.200 feriti, un centinaio dei quali ospedalizzati e tra essi 200 bambini, quasi tutti colpiti dai frammenti di vetro delle abitazioni prodotte dall’impatto delle meteore al suolo o dall’onda d’urto. Si contano oltre tremila edifici danneggiati. Le scie meteoritiche apparse in cielo sono state riprese da chi si trovava all’aperto o alla guida di un veicolo; in qualche caso l’impatto è stato registrato da telecamere di sorveglianza. L’agenzia spaziale Roscosmos non ha individuato il corpo in avvicinamento che si è disintegrato in atmosfera tra i 50 e i 30 km di quota. Non è sfuggito, invece, al satellite europeo Meteosat-10 in orbita geostazionaria, che ha ripreso la lunga traccia di vapore rilasciata dall’impatto del meteorite con gli strati superiori dell’atmosfera. Quanto accaduto è destinato a riaccendere il dibattito sulla necessità di affinare e potenziare il sistema di sorveglianza e allarme su asteroidi e meteore potenzialmente pericolosi perchè a rischio di impatto con la Terra.
L’evento richiama quanto avvenne in Siberia, a Tunguska, il 30 giugno 1908, quando un asteoride di 40 metri di diametro si abbattè su un’area di oltre 2.000 km quadrati, dopo aver attraversato il cielo da sudest a nordovest, distruggendo 60 milioni di alberi e producendo un’energia pari a mille bombe di Hiroshima.
Giovanni Valsecchi, esperto di meteoriti dell’INAF – IAPS di Roma, ha rilasciato un’intervista a Marco Malaspina sulla pioggia di frammenti di meteora verificatasi sui cieli della Russia e sul passaggio ravvicinato dell’astroide 2012 DA14
Venerdì 15 febbraio, alle 20:26 ora italiana, un asteroide lungo 45 metri e con una massa di 130 tonnellate sfiorerà il nostro pianeta transitando a una distanza minima di 27mila km, vale a dire più basso dell’orbita geostazionaria dove si trovano i grandi satelliti per telecomunicazioni e meteorologici. In principio si era temuto che l’asteroide “2012 DA 14” potesse intersecare la quota di 36mila km. Nessun pericolo d’impatto con la Terra, sotto osservazione e continuamente monitorata la traiettoria del corpo celeste. Il suo passaggio avverrà più in basso rispetto alla linea di circonferenza dell’orbita geostazionaria dove si trovano 432 satelliti attivi, sia civili che militari, oltre a quelli che hanno cessato di funzionare. L’asteroide «2012 DA 14» è stato scoperto appena un anno fa dall’Osservatorio astronomico di La Sagra in Spagna. Il suo moto di rivoluzione intorno al Sole è pressoché uguale a quello della Terra, dal momento che compie un giro completo in 366 giorni. Il suo prossimo passaggio è previsto nel 2020 e anche in quella data il pericolo d’impatto appare scongiurato. Laddove il cielo serale di venerdì 15 febbraio risulterà sgombro da nubi, l’asteroide potrà essere osservato anche con un binocolo.
GUARDA IL VIDEO DELLA NASA
L’ultima stima effettuata dalla NASA in base alle osservazioni del satellite Wise, i corpi celesti potenzialmente pericolosi, avendo un diametro di cento metri e più, sono poco meno di 5.000 ma il censimento è destinato ad accrescerne il numero, probabilmente fino a triplicarlo. Negli ultimi tempi le attenzioni maggiori si sono concentrate sull’asteroide Apophis, che dopo essere transitato a una distanza di 15 milioni di chilometri dalla Terra il 9 gennaio scorso, tornerà dalle nostre parti nel 2036. Per fortuna, il Near-Earth Object Program Office che opera al Jet Propulsion Laboratory della NASA è in grado di escludere rischi d’impatto anche al prossimo passaggio.
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