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L’elettronica di Ariane 6

L’elettronica di Ariane 6

Ariane 6

Thales Alenia Space ha siglato un contratto con SABCA, prime contractor per i tre sistemi di azionamento del vettore di spinta (TVAS) sul nuovo razzo Ariane 6, per sviluppare e fornire l’elettronica di controllo dello sterzo dell’ogiva. ArianeGroup è il prime contractor per Ariane 6 per conto dell’Agenzia Spaziale Europea. Quest’ultimo contratto segue quello già siglato con ArianeGroup che pone Thales Alenia Space a capo dello sviluppo del sistema di sicurezza della serie Ariane 6. Lo sviluppo dell’elettronica a cura di Thales Alenia Space riguarda una serie di sottosistemi. Quelli preposti all’attuazione dei vettori di spinta a propellente solido (S-TVAS) per propulsori a propellente solido P120C. La versione gemella del razzo Ariane 62 a due componenti propulsive avrà due unità S-TVAS, mentre l’Ariane 64 con 4 componenti propulsive avrà quattro di queste unità. Ci sono, poi, i sottosistemi di attuazione per vettori di spinta a liquido inferiore (LL-TVAS), per lo stadio criogenico principale e i sottosistemi di attuazione per vettori di spinta a liquido superiore (UL-TVAS), per lo stadio superiore criogenico di riaccensione. Thales Alenia Space, che contribuisce da più di 40 anni allo storico programma Ariane, avrà la piena responsabilità anche per la progettazione e la realizzazoone dell’eletrronica che è alla base del sistema di sicurezza della serie Ariane 6. La società fornisce altri componenti del sistema di sicurezza per la serie che sono condivisi con Ariane 5, Vega e Soyuz. Lo sviluppo di Ariane 6 è stato approvato dal Consiglio ESA nel dicembre 2014 per garantire all’Europa di mantenere la propria leadership nel mercato dei lanci commerciali in rapida evoluzione, rispondendo anche alle esigenze delle missioni governative europee. Il lanciatore verrà sviluppato in due versioni: Ariane 62, con due propulsori strap-on a propellente solido, e Ariane 64 con quattro propulsori strap-on a propellente solido. Il primo lancio di Ariane 6 è previsto per il 2020.

 

I 100 giorni di AstroPaolo

I 100 giorni di AstroPaolo

Dopo il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e Papa Francesco, è la volta del presidente del consiglio, Paolo Gentiloni. L’astronauta italiano dell’Agenzia Spaziale Europea, Paolo Nespoli, dialoga con le massime figure istituzionale per raccontare la sua missione Vita a bordo della stazione spaziale internazionale, in orbita a 400 km. Un collegamento avvenuto in un momento particolare, coinciso con i primi 100 giorni della terza esperienza di AstroPaolo nello spazio. «Abbiamo una giornata veramente piena e proprio qui, sulla Iss, abbiamo sviluppato un vaccino contro la salmonella perché nello spazio i virus diventano più virulenti ed i test in orbita danno spesso risposte che sul nostro pianeta non si riescono ad ottenere» – ha spiegato Nespoli a Gentiloni, per poi riprendere un tema già affrontato con gli altri due illustri predecessori: «Non vedo conflitti fra le attività spaziali dei governi e quelle dei privati – ha continuato Nespoli –  l’assenza di gravità, il potersi togliere da dosso questa gravità e diventare ‘l’uomo ragno’ o ‘superman’, cioè poter spostare cose pesantissime senza problemi, è una sensazione molto bella». «Poi vedere la Terra da quassù è impareggiabile – ha concluso l’astronauta – dico sempre che guardare la Terra dalla Terra è come guardare un’opera d’arte con il naso attaccato alla tela. Bisogna staccarsi e guardare più da lontano per poterne apprezzare la bellezza». Ma AstroPaolo ha trovato il tempo e il modo di festeggiare con grande spolvero il traguardo dei 100 giorni, mostrandosi insieme agli altri membri d’equipaggio con camicie punteggiate di stelle su fondo blu e un biglietto di auguri, senza rinunciare al tweet ”100 giorni sulla Stazione Spaziale con @AstroKomrade e @SergeyISS: grato, orgoglioso e meravigliato di quanto in alto possiamo volare assieme!”, dedicato all’americano Randy Bresnik e al russo Sergey Ryazansky, con i quali è partito a bordo della Soyuz  il 28 luglio 2017.

Arte e grafica per Cheops

Arte e grafica per Cheops

Le attività spaziali si prestano al talento di chi dimostra di possedere una vena artistica. L’Agenzia Spaziale Europea offre l’opportunità ad artisti e grafici di ogni parte del mondo di mettersi in gioco per proporre un’idea di decorazione della parte esterna del razzo Soyuz, destinato a trasportatre CHEOPS, il primo satellite completamente dedicato alla caratterizzazione dei pianeti extrasolari, pronto per il lancio entro la fine del 2018. Costruito dall’Agenzia Spaziale Europea e dalla Svizzera con il fondamentale contributo italiano attraverso l’Agenzia Spaziale Italiana e l’apporto scientifico dell’INAF e dell’Università di Padova, CHEOPS (CHaracterizing ExOplanet Satellite), è la prima delle missioni di classe S (Small) del programma “Cosmic Vision 2015-2025” dell’ESA, destinata a misurare con precisione le caratteristiche fisiche ancora sconosciute di pianeti in sistemi planetari diversi dal Sistema Solare. Punterà stelle già note per ospitare pianeti, misurando ad altissima precisione la variazione di luminosità stellare prodotta quando il pianeta si trova a transitare davanti alla stella riuscendo quindi a misurarne la dimensione ed altre caratteristiche con alta precisione.

Il concorso – rilanciato in una nota dell’Agenzia Spaziale Italiana – è un’occasione unica per tutti gli artisti, studenti di graphic art e design e progettisti di entrare a far parte della storia dell’ESA. Il vincitore vedrà esposta la sua opera fin dai preparativi di lancio, su fotografie e filmati nello spazioporto di Kourou, in Guiana Francese e sarà invitato a partecipare all’evento ufficiale del lancio di CHEOPS come ospite dell’ESA. I progetti che arriveranno in finale saranno esposti durante l’evento, che sarà trasmesso in diretta streaming.

La domanda di partecipazione potrà essere presentata entro il 31 gennaio 2018.

Link: www.cosmos.esa.int/web/cheops-competition/submission

Stelle di laboratorio

Stelle di laboratorio

Un team internazionale guidato da ricercatori del LULI (Laboratoire pour l’Utilisation des Lasers Intenses, Ecole Polytechnique UPMC/CNRS) in Francia e di cui fanno parte colleghi dell’Istituto Nazionale di Astrofisica e dell’Università di Palermo, è riuscito a riprodurre per la prima volta in laboratorio il processo di accrescimento di massa in stelle giovani, processo mediante il quale le stelle appena nate continuano a catturare enormi quantità di materiale dalla nube che le ha generate. Nel caso delle stelle questo materiale viene accelerato fino a velocità di quasi due milioni di chilometri all’ora, impattando violentemente sulla loro superficie.  L’esperimento in laboratorio ha riprodotto la regione di impatto sulla stella, permettendo di osservarla per la prima volta con risoluzioni spaziale e temporale inaccessibili nelle osservazioni astronomiche. “Grazie a questo lavoro siamo così riusciti a vedere che al centro della regione di impatto il materiale si riscalda fino a temperature di milioni di gradi, mentre all’esterno della regione di impatto può formarsi una coltre di gas denso e freddo, che nasconde parzialmente la regione calda di impatto al suo interno” commenta Rosaria Bonito, dell’Inaf di Palermo, coautrice dell’articolo che descrive la ricerca, pubblicato nell’ultimo numero della rivista Science Advances. Il processo di accrescimento nelle stelle in formazione è un argomento oggi assai studiato da vari gruppi di ricerca in tutto il mondo. I nuovi astri, quando iniziano ad accendersi, sono infatti ancora circondati da enormi quantità di materiale in orbita in una struttura a disco, nella quale si stanno formando pianeti. Il processo di accrescimento aumenta la massa della stella, e contemporaneamente toglie materiale utile alla formazione dei pianeti. “I risultati ottenuti in laboratorio hanno svelato qual è la struttura della zona di impatto, mostrando che coesistono zone calde e zone fredde” sottolinea Salvatore Orlando, anch’egli dell’Inaf di Palermo, che ha partecipato allo studio. “Tutti questi risultati sono stati supportati e validati da modelli magnetoidrodinamici. Quanto trovato permetterà nuove e più precise interpretazioni delle osservazioni stellari, e quindi misure più accurate del tasso di accrescimento di massa nelle stelle giovani”. Per Costanza Argiroffi, dell’Università di Palermo e associata INAF, “questo lavoro costituisce un primo passo, un primo esperimento, che apre la porta a nuove indagini che permetteranno di studiare in modo nuovo gli impatti di materiale in accrescimento su stelle giovani mediante esperimenti di laboratorio.”

 

Rosetta e l’anello mancante

Rosetta e l’anello mancante

La sonda Rosetta continua a far parlare di sé e i dati raccolti sulla cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko ancora per molti anni permetteranno di scrivere nuovi capitoli sulla straordinaria missione. Gli ultimi due, in ordine di tempo, sono stati pubblicati su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, a cui hanno partecipato numerose ricercatrici e ricercatori italiani e dell’Inaf. Il primo studio, guidato da Jürgen Blum della Technische Universität Braunschweig, in Germania, ha trovato quello che può essere definito come l’anello finora mancante nella concatenazione di eventi che hanno portato alla formazione dei pianeti. Gli scienziati non sapevano infatti come collegare la formazione di ciottoli (dust pebbles), originati nella nebulosa protoplanetaria solare dall’adesione di particelle di polvere e ghiaccio che collidono fra loro, con l’accrescimento gravitazionale dei planetesimi (corpi come gli asteroidi e le comete) in pianeti.In altri termini, sappiamo come si formano i “mattonicini”, e sappiamo anche come “grandi pietre” possano unirsi grazie all’attrazione gravitazionale fino a formare pianeti. Ma come si passa dai ciottoli alle “grandi pietre”? Decine di esperimenti, effettuati proprio da Blum, hanno dimostrato che le collisioni fra polveri nel disco protoplanetario sono distruttive per dimensioni oltre il centimetro, cioè oltre la dimensione dei ciottoli. Inoltre, come ha osservato il radiotelescopio Alma in dischi protoplanetari extra-solari, i pianeti nascono molto in fretta: entro il primo milione di anni dalla formazione del disco protoplanetario stesso. La risposta viene dalla struttura di 67P, desunta dalle osservazioni di Rosetta: la cometa è un corpo granulare, un aggregato di ciottoli “primordiali” di dimensioni millimetriche, contenenti polvere e ghiaccio; solo gli strati più superficiali, che sono esposti alla luce solare diretta, non contengono ghiaccio.

«Moltissimi dati di Rosetta vengono naturalmente spiegati assumendo che 67P sia un accumulo di ciottoli tenuto assieme dalla debolissima gravità reciproca, come previsto dai modelli in grado di spiegare le osservazioni di Alma e la nascita dei pianeti in poche centinaia di migliaia di anni», sintetizza uno degli autori, Marco Fulle dell’Inaf di Trieste. “Quindi 67P è un corpo perfettamente omogeneo, e perfettamente consistente con i modelli in grado di spiegare la nascita di pianeti in tutti i dischi protoplanetari. Questo risultato, a suo modo, rappresenta una piccola grande unificazione». Grazie alla massa relativamente piccola della cometa 67P, i ciottoli sono sopravvissuti intatti fino a oggi, permettendo agli scienziati, per la prima volta, di confermare l’ipotesi che la cometa sia nata grazie all’accumulo di ciottoli, che hanno dato origine a un corpo coerente grazie a un delicato flusso d’attrazione. Un effetto collettivo delle particelle di polvere, leggero ma irresistibile, che gli scienziati definiscono “streaming instability”. «Per far collassare un corpo come questo per gravità», spiega Fulle, «basta che tutti i ciottoli si concentrino entro la sua sfera di Hill, che per 67P ha un raggio di circa 200 km. Gli ultimi codici di streaming instability confermano che è possibile: una volta che dieci miliardi di tonnellate (il peso della cometa) di ciottoli si trovano entro un volume di 400 km di diametro, non è più possibile evitare il collasso gravitazionale. Ma il collasso è così “gentile”, e le pressioni interne sono così piccole, da non alterare i ciottoli».

Il nuovo studio dimostra anche che un siffatto nucleo di ciottoli tenuti assieme dalla sola gravità ha un comportamento termico che può spiegare molte delle proprietà osservate per la cometa 67P, come per esempio la sua elevata porosità e la quantità di gas che fuoriesce da dentro mentre la cometa si avvicina al Sole. Altre evidenze, tuttavia, vanno un po’ in contrasto con questo modello. Come il getto di gas e polveri del 3 luglio 2016, una piccola “eruzione” che Rosetta è stata in grado di misurare con ben cinque dei suoi strumenti e che ha permesso agli scienziati, per la prima volta, di combinare osservazioni della polvere rilasciata assieme ai relativi cambiamenti della superficie. Il risultato di questo ulteriore studio, guidato da Jessica Agarwal del Max-Planck-Instituts für Sonnensystemforschung, indica che gli impressionanti getti di polvere che le comete emettono nello spazio durante il loro viaggio intorno al Sole non sono spinti esclusivamente dalla sublimazione di acqua congelata, ma devono esistere altre fonti di energia interne alla cometa da cui attingono. Gli scenari possibili ipotizzati dalle ricercatrici e dai ricercatori nel nuovo studio comprendono il rilascio di gas pressurizzato immagazzinato sotto la superficie, oppure la conversione del ghiaccio amorfo in cristallino, energeticamente più favorevole, indotta dal riscaldamento solare.

«Queste ipotesi vanno un po’ contro il risultato di un nucleo perfettamente omogeneo e per lo più secco», ammette Fulle, coautore anche di questo studio. «La porosità del nucleo sembra escludere che sia possibile accumulare gas sotto pressione in sacche interne, indipendentemente dal modello a ciottoli». L’aspetto unico dell’evento del 3 luglio 2016 è rappresentato dalle immagini ad alta risoluzione della superficie, in cui i ricercatori hanno individuato una zona circolare di circa dieci metri di diametro all’interno di una depressione come punto di partenza del getto. Come hanno confermato le analisi, quest’area contiene acqua congelata sulla superficie. In generale, gli scienziati suppongono che i gas congelati sulla superficie cometaria, come il ghiaccio d’acqua, siano responsabili dei getti di polvere. Sotto l’influsso del calore solare, queste sostanze sublimano, passando direttamente allo stato gassoso, e il flusso di gas trascina con sé le particelle di polvere nello spazio. Tuttavia, il nuovo studio dimostra che, con una produzione di polvere di circa 18 kg al secondo, il getto del 3 luglio 2016 è troppo “polveroso” rispetto a quanto predicono i modelli convenzionali, richiedendo quindi la presenza di ulteriori processo energetici in gioco, come quelli ipotizzati sopra.

«Le due ipotesi suggerite in questo studio non sono le uniche possibili, qui davvero siamo appena agli inizi», commenta Fulle. «Mancano ancora esperimenti di laboratorio che studino cosa succede a basse temperature nel nucleo interno e in una struttura a ciottoli sottoposta a perturbazioni. Certamente, si rende evidente che queste due ipotesi “classiche”, valide in vecchi modelli cometari “a cipolla”, difficilmente si conciliano con tutti gli altri dati di Rosetta». «C’è una particolare attenzione in questo momento all’interno della comunità scientifica di Rosetta a cercare di combinare i dati ottenuti da 67P con modelli, simulazioni e lavoro di laboratorio qui sulla Terra, per risolvere la questione su cosa produca tale attività sulle comete», conferma in conclusione Matt Taylor, responsabile scientifico di Rosetta all’Agenzia spaziale europea.

(Crediti: ESA/Rosetta/NAVCAM e ESA/Rosetta/MPS for OSIRIS Team)