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Iran sulla soglia dello spazio

Iran sulla soglia dello spazio

Oltre mezzo secolo dopo l’invio dei primi animali nello spazio, nelle missioni propedeutiche alle missioni umane in orbita, l’Iran lanciato un veicolo che, spinto da un razzo vettore che celerebbe le capacità balistiche raggiunte dal Paese, ha raggiunto la quota di 120 km prima di fare rientro e riportare a terra la scimmia che era a bordo. Il primo mammifero a volare nello spazio fu la cagnetta Laika, lanciata dall’Unione Sovietica il 3 novembre 1957. Secondo i programmi di Teheran, i primi astronauti iraniani dovrebbero volare entro la fine di questo decennio. Il razzo Kavoshghar 5 che ha spinto la capsula Pishgam (Pioniere) del peso di 285 kg con la scimmia oltre l’atmosfera avrebbe tutte le caratteristiche del missile a lungo raggio impiegabili per recare nell’ogiva una testata nucleare. Un sospetto che da solo basta per alzare il livello di attenzione sui programmi dell’Iran in campo spaziale e missilistico. Nel 2011 un’analoga missione era fallita, ma il Paese arabo ha allenato cinque scimmie da impiegare in missioni propedeutiche al lancio di astronauti. Il programma spaziale iraniano è diretto da Hamid Fazeli, il quale ritiene che la prima missione umana potrebbe svolgersi nel 2018. Dopo Russia, Stati Uniti, Unione Europea, Cina e India, anche l’Iran aspira e si appresta a entrare nel rispetto club delle potenze spaziali.

Il quarantennale della missione Apollo 17

Il quarantennale della missione Apollo 17

In un video di circa mezz’ora la NASA raccolta l’ultima volta dell’uomo sulla Luna. La missione Apollo 17 venne lanciata il 7 dicembre 1972 dal Kennedy Space Center di Cape Canaveral in Florida, con a bordo gli astronauti Eugene Cernan, Ron Evans e Jack Schmitt, geologo e unico scienziato a partecipare al programma di esplorazione lunare. Cernan e Schmitt sbarcarono nella valle Taurus-Littrow, vicino al mare della Serenità, sulla faccia visibile del nostro satellite naturale. Il sito di allunaggio venne scelto perché i depositi rocciosi furono ritenuti più interessanti, per la presenza sia di materiale risalente all’epoca di formazione che più recente.

Mentre Evans rimase in orbita lunare a bordo del Modulo di Comando, Cernan e Schmitt si fermarono poco più di tre giorni sulla superficie lunare, impiegando il rover lunare come nelle precedenti missioni Apollo 15 e 16 e percorrendo 33 km e 800 metri sulle quattro ruote. Quella di Apollo 17 è considerata la missione più interessante dal punto di vista scientifico, tra le sei che hanno trasportato uomini sulla Luna (Apollo 13 fallì con il rientro fortunoso dell’equipaggio, mentre le prime quattro del programma furono propedeutiche alla serie di allunaggi). Gli astronauti riportarono a terra oltre 110 kg di campioni lunari, stabilirono il record di permanenza sulla superficie selenita con un totale di 75 ore, di cui 22 ore e 4 minuti di attività extraveicolare.

Il racconto filmato della missione Apollo 17

 

Il GRAIL della gravità lunare

Il GRAIL della gravità lunare

Le sonde gemelle della missione GRAIL (Gravity Recovery and Interior Laboratory) della NASA hanno misurato le variazioni della gravità lunare, producendo una mappa senza precedenti della crosta del nostro satellite. I risultati preliminari sono riassunti in tre articoli pubblicati su Science e confermano che la Luna ha ancora molte storie da raccontarci. La sua geologia superficiale viene studiata da secoli da Terra, e da decenni per mezzo di missioni spaziali, e rivela tracce di grandi impatti ed eruzioni vulcaniche nel passato. Ma nel corso del tempo il bombardamento di meteoriti ha cancellato la maggior parte delle tracce delle prime fasi della vita della Luna. Agli astronomi non resta che indagare nel sottosuolo selenita.

La missione GRAIL, lanciata nel settembre 2011, ha il compito di studiare il campo gravitazionale lunare, e in base a questo dedurre dettagli della topografia e composizione della crosta sottostante. Si basa su due sonde che orbitano attorno alla Luna in formazione, a una distanza prefissata l’una dall’altra. Quando una delle due passa su qualcosa (un rilievo, o una zona di diversa composizione geologica)che altera il campo gravitazionale, la distanza dalla sonda gemella varia leggermente. Messe assieme, queste variazioni permettono di costruire una mappa estremamente dettagliata della gravità Luna. Un metodo deduttivo che ha un precedente. La stessa tecnica era stato usata con grande successo sulla Terra dalla missione GRACE. Nel caso di GRAIL si è trattato di aggirare il problema creato dal fatto che la Luna rivolge sempre la stessa faccia alla Terra, rendendo impossibile una misura fatta, per esempio, con una singola sonda che invii a terra un segnale radio: dalla faccia nascosta non arriverebbe nessun segnale. Ecco quindi l’idea di usare due satelliti che misurano la loro posizione relativa, anziché quella rispetto alla Terra. Se la missione GRACE, sulla Terra, usava il GPS per misurare le posizioni dei due satelliti, qui sì è usato invece un “classico” tracking basato su segnali radio.

“I primi risultati dalla missione GRAIL appaiono estremamente importanti, e in linea con le aspettative createsi attorno alla missione stessa” commenta Roberto Peron, che fa parte del gruppo di gravitazione sperimentale dell’Istituto di Fisica dello Spazio Interplanetario (IFSI) dell’INAF, gruppo diretto da Valerio Iafolla. “I due satelliti della missione GRAIL hanno prodotto i dati che sono stati utilizzati dagli autori dell’articolo per sviluppare un modello del campo gravitazionale lunare con una risoluzione mai raggiunta in precedenza.”

Un buono esempio del livello di dettaglio raggiunto da GRAIL sono le macchie bianche visibili nelle mappe, corrispondenti ai cosiddetti masconi, forti anomalie gravitazionali dovute a particolari concentrazioni di massa al di sotto della superficie. In particolare, sono dovuti a una forte concentrazione di massa basaltica di origine vulcanica. “I risultati della missione contribuiranno a porre vincoli sulla struttura e composizione interna della Luna, e a chiarire gli aspetti ancora sconosciuti sulla sua formazione ed evoluzione” commenta Peron.

Dal momento che l’obiettivo della missione GRAIL è lo studio del ruolo degli impatti nella formazione della crosta lunare, i dati ricavati parlano chiaramente di una crosta che è stata letteralmente bersagliata dai meteoriti, percorsa com’è da fratture che vanno da sottilissime fessure a vere e proprie faglie che raggiungono decine di chilometri di profondità. Oltre a frammentare profondamente la crosta – spiega Maria Zuber del Massachusetts Institute of Technology – gli impatti hanno avuto l’effetto di renderla più omogenea in densità. Un altro dato che emerge dalla missione è che la crosta lunare sembra più sottile di quanto si credesse: fra i 34 e i 43 kiliometri, e non tra i 50 e i 60 come si credeva”.

“Lo studio si concentra soprattutto sulla crosta” nota Peron. “A questo punto quello su cui mancano ancora informazioni è il nucleo”. Peron ricorda a questo proposito che una proposta di missione tutta italiana, basata sullo stesso concetto della doppia sonda, era stata presentata qualche anno fa e portata fino alla conclusione della Fase A da un gruppo di ricerca guidato dalla scomparsa Angioletta Coradini. La proposta comprendeva anche l’uso di un accelerometro simile allo strumento ISA, poi sviluppato per la missione Bepi Colombo e di cui Valerio Iafolla è Principal Investigator. “Pur se la proposta MAGIA non ha avuto seguito nelle fasi successive, l’idea di utilizzo di un accelerometro ad elevata sensibilità per l’esplorazione lunare è stata portata avanti nel contesto di un rinnovato interesse di un’esplorazione diretta – con lander automatici – della superficie lunare. Infatti un accelerometro come ISA funziona allo stesso modo sia a bordo di una sonda che a terra, lavorando in quest’ultimo caso come sismometro. Una sua eventuale presenza contribuirebbe ad un monitoraggio pressoché continuo del sito di allunaggio, producendo al tempo stesso osservazioni scientifiche utili a caratterizzare meglio lo stato fisico del nucleo lunare, cosa che non sembra rientrare tra gli obiettivi scientifici prioritari di GRAIL”.

Curiosity: impasto di cloro e zolfo in acqua marziana

Curiosity: impasto di cloro e zolfo in acqua marziana

C’era grande attesa per l’annuncio che la Nasa avrebbe dato in relazione a un’importante scoperta scaturita nel corso della missione del rover Curiosity sulla superficie di Marte. La conferenza stampa, svoltasi alle 18 italiane di lunedì 3 dicembre nella sede della Società Geofisica Americana a San Francisco, ha svelato ciò che più realisticamente si riteneva fosse emerso dalle analisi del terreno marziano. Ovvero tracce di acqua più ricca di quella presente sulla Terra, in cui sono presenti composti prevalenti come deuterio, zolfo e cloro insieme a molecole organiche elementari, certamente non di tipo biologico. Il bilancio dei primi cento giorni della missione Curiosity, dal costo di 2,6 miliardi di dollari, è sicuramente soddisfacente per il mondo scientifico che attende riscontri sulla presenza di un elemento base come l’acqua, non per chi si sarebbe aspettato la conferma di tracce di vita riesumate dal passato del Pianeta Rosso. In effetti John Grotzinger, a capo del team di ricerca scientifica della missione Curiosity, si era fin troppo sbilanciato parlando di scoperta epocale. Tuttavia, il punto di vista di uno scienziato può non essere lo stesso di un osservatore comune. Per cui le analisi chimico-fisiche nel cratere Gale, dove il rover scandaglia con il suo braccio robotico, hanno rilevato tutta la loro importanza, pur senza trovare traccia di molecole organiche complesse.

Resta in pista la missione europea Exomars, che prevede l’invio di una prima sonda nel 2016 e lo sbarco di un rover nel 2018 che sarà dotato di un sistema di perforazione capace di spingersi due metri sotto la superficie, dove potrebbero conservarsi indizi di forme organiche sopravvissute al tempo e all’azione dei raggi cosmici.

In due per un anno intero in orbita

In due per un anno intero in orbita

La stazione spaziale internazionale in orbita terrestre diventerà il laboratorio avanzato di fisiologia umana in vista delle missioni di lungo periodo che dovranno permettere agli astronauti di sbarcare su Marte. Nella primavera 2015 sarà lanciata la missione che vedrà l’americano Scott Kelly e il russo Mikhail Kornienko, selezionati da NASA e Agenzia Spaziale Federale Russa Roscomos, rimanere a bordo un anno intero raccogliere dati sull’adattamento dell’uomo a lunghi periodi in assenza di gravità. Una così lunga permanenza era stata già affrontata in passato dai cosmonauti russi a bordo della stazione Mir. Il 22 marzo 1995 l’astronauta e medico russo, Valery Polyakov, ha toccato terra dopo aver trascorso in orbita 449 giorni. Kelly e Kornienko saranno lanciati a bordo di una capsula russa Soyuz dal Cosmodromo di Baikonur in Kazakistan nella primavera del 2015, e atterreranno in Kazakistan nella primavera del 2016. Un anno intero per simulare dal vivo le condizioni che si creano quando un essere umano deve affrontare condizioni ambientali tali da modificare il comportamento dell’organismo, la densità ossea, la massa muscolare e la visione. Missioni di lungo termine riguardano l’approdo su Marte ma anche le missioni sugli asteroidi. Non a caso sono stati scelti due veterani dello spazio.

Kelly, pilota dello space shuttle nella missione STS-103 nel 1999 e comandante di STS-118 nel 2007, è stato ingegnere di bordo della Expedition 25 sulla Stazione Spaziale Internazionale nel 2010 e comandante della Expedition 26 nel 2011, accumulando oltre 180 giorni nello spazio. Kornienko, nel corpo dei cosmonauti dal 1998, ha svolto il ruolo di ingegnere di bordo negli equipaggi della Expedition 23/24 sulla stazione nel 2010, e ha trascorso oltre 176 giorni nello spazio. Kelly e Kornienko inizieranno un programma biennale di addestramento tra Stati Uniti, Russia e gli altri Paesi partecipanti alla ISS.

Felix proiettile umano a Mach 1,24

Felix proiettile umano a Mach 1,24

Impresa a metà tra sport estremo e scienze aerospaziali quella compiuta dal 43enne austriaco Felix Baumgartner, che è riuscito a infrangere la barriera del suono lanciandosi dalla quota di 39.043 metri, raggiunta a bordo di una capsula agganciata a un pallone stratosferico, e toccando la velocità di 1.342 km/h pari a Mach 1,24. Una caduta libera durata 4 minuti e 19 secondi, iniziata con una temperatura di 57 gradi Celsius sotto zero e affrontata con una tuta pressurizzata sviluppata per la missione denominata Red Bull Stratos. La salita verso la stratosfera, durata due ore e 48 minuti, e il successivo lancio sono avvenuti sopra il New Mexico, in corrispondenza di Roswell, località rimbalzata alle cronache nel 1947 richiamata per il ritrovamento di detriti attribuiti a Ufo.
L’impresa di Baumgartner è assolutamente reale, al punto di essere stata interamente documentata e trasmessa in diretta televisiva streaming. Il ritardo di circa mezzo minuto avrebbe consentito l’interruzione delle immagini qualora si fosse verificato un incidente. Per fortuna l’intera fase ascensionale, ma soprattutto la discesa si è svolta secondo quanto prestabilito, con Baumgartner che è riuscito in pochi secondi a regolare l’assetto e stabilizzare il corpo rispetto alla traiettoria di caduta. In caso contrario l’onda d’urto che si sviluppa nel superamento della barriera del suono avrebbe potuto avere conseguenze disastrose. E’ la prima volta che un uomo si lancia senza protezione alcuna da una quota così proibitiva, dopo il tentativo effettuato nel lontano 1960 dal colonnello americano Joe Kittinger, presente nella sala di controllo della missione Red Bull Stratos, che resta in possesso del primato assoluto di caduta libera pari a 4 minuti e 36 secondi. Raggiunta la velocità massima, dopo 4’19″ Felix Baumgartner ha aperto il paracadute che lo ha portato a toccare terra nel deserto del New Mexico dopo altri 4 minuti e 44 secondi. Ora può vantare tre record: velocità massima in caduta libera (1.342 km/h) e quota maggiore di lancio (39.043 metri) che corrisponde anche alla massima altezza raggiunta a bordo di un pallone stratosferico.
“A volte bisogna salire molto in alto per capire quanto siamo piccoli sulla Terra” – proferito Baumgartner dopo aver portato a compimento la sua missione. Una frase che non potrà mai diventare celebre come quella di Neil Armstrong sulla Luna, ma aiuta a dare significato a questo tipo di risultato.
La ricerca scientifica ha fatto sicuramente passi in avanti, avendo messo a punto una tuta che ha consentito di mantenere la pressione a valori minimi. E poi c’è l’abilità di Baumgartner a sfruttare l’aria rarefatta per raggiungere velocità limiti e poi adeguarsi alla pressione atmosferica crescente durante la caduta. Senza tenere conto dell’aspetto psicologico e della straordinaria preparazione ad affrontare l’impresa avendo consapevolezza di essere a metà tra la terra e lo spazio.