Ha preso il via, non senza qualche momento di apprensione, la prima missione privata di rifornimento della stazione spaziale internazionale. La compagnia privata SpaceX ha lanciato con successo la capsula Dragon dal Kennedy Space Center di Cape Canaveral. La partenza è avvenuta alle 2.35 ora locale di lunedì 8 ottobre 2012. Il primo volo operativo commerciale della storia prende il nome di Crs-1, acronimo di Commercial Resupply Services, e rientra nel contratto da 1,6 miliardi di dollari che l’agenzia spaziale americana ha sottoscritto con SpaceX, società che fa capo a Elon Musk, inventore del sistema di pagamento via internet Pay Pal, per un totale di 12 lanci diretti alla stazione spaziale per trasferire materiali, pezzi di ricambio e rifornimenti per l’equipaggio. La missione dimostrativa aveva consentito di collaudare con successo nel maggio 2012 il veicolo cargo Dragon, che in quella occasione si è agganciato regolarmente al complesso orbitale. Il razzo vettore Falcon 9 ha portato in orbita il carico di oltre 400 chilogrammi che comprende esperimenti, cibo, indumenti e altro materiale d’uso e consumo a bordo della Iss. Una curiosità: a bordo di Dragon ha viaggiato un piccolo frigorifero in cui, insieme a campioni biologici, ci sono anche dei gelati, dono per gli astronauti. Momenti di tensione, anche se ottimamente gestiti in sala controllo, sono stati vissuti un minuto e 28 secondi di volo dopo la partenza, quando uno dei nove motori del primo stadio si è spento. Il computer di bordo ha comandato l’allungamento della prima fase di spinta servito a compensare il calo di potenza. Il secondo stadio, invece, ha funzionato regolarmente fino al tempo previsto di 10 minuti e 24 secondo dopo il decollo, permettendo di rispettare i parametri per l’inserimento della capsula in orbita ellittica con apogeo a 326 chilometri all’apogeo e perigeo a 211. Il problema a uno dei nove motori del primo stadio del razzo Falcon 9 non ha trovato impreparati i tecnici di SpaceX, perché questa eventualità è stata prevista in fase di progettazione, così come la manovra che ha posto rimedio al problema propulsivo. Ciò rappresenta un grosso vantaggio anche in vista del possibile utilizzo di Dragon per il trasferimento degli astronauti in orbita, oggi affidato esclusivamente alle capsule russe Soyuz dopo il pensionamento degli Space Shuttle. Peraltro, Dragon è al momento l’unico cargo spaziale in grado di rientrare sulla Terra portando indietro materiali ed esperimenti scientifici completati. In alternativa, sia il cargo russo Progress che l’ATv europeo si disintegrano al rientro nell’atmosfera. Una volta vicino alla Iss, Dragon viene agganciata dal braccio robotico e fatta attraccare, diventando un pezzo della stazione fino al 28 ottobre quando se ne distaccherà per ammarare nel Pacifico, riportando a terra un quantitativo doppio del materiale trasferito in orbita. Agli inizi del 2013 toccherà anche alla Orbital Science esordire con il proprio veicolo automatico Cygnus, il cui involucro pressurizzato è realizzato negli stabilimenti di Torino di Thales Alenia Space. Anche Cygnus appartiene alla categoria delle capsule non recuperabili.
La scoperta di un buco nero al centro della nostra galassia è solo una delle tante risposte relative ai segreti dell’Universo, ottenute grazie all’impiego di strumenti avanzati che operano al di fuori della cortina dell’atmosfera e dell’influenza del campo magnetico terrestre. Il satellite Integral, lanciato il 17 ottobre 2002 dall’Agenzia Spaziale Europea con il razzo vettore russo Proton dalla base di Baikonour, ha permesso per l’appunto di osservare il cuore della Via Lattea e confermare la presenza del buco nero. Un risultato ottenuto grazie alla grande risoluzione spettrale consentita dalle apparecchiature di bordo, dotate di una sensibilità mai raggiunta in precedenza. Il telescopio per raggi gamma Ibis, che rappres enta la componente principale del contenuto italiano alla missione Integral, consente di puntare con estrema precisione le regioni cosmiche dove sono presenti queste sorgenti e rivelare i singoli oggetti celesti che le emettono, contribuendo ad acquisire informazioni fondamentali su natura e caratteristiche di questi fenomeni, a cominciare dalla luminescenza.
Pietro Ubertini, direttore dell’Istituto di astrofisica spaziale e fisica cosmica, intervenuto allo Space Day di BergamoScienza, ritiene indispensabile concepire nuovi e ancora più potenti strumenti di osservazione pronti a succedere a Integral, che nel frattempo continua la missione nella sua orbita eccentrica di 72 ore a 155mila km dalla Terra.
Parlare di buchi neri e lampi gamma significa fare un viaggio virtuale attraverso l’universo violento. L’identikit del buco nero presente al centro della nostra galassia è tranquillizzante dal punto di vista astrofisico. Ha una massa 3,7 volte quella del Sole e intorno a sé ha creato un vuoto cosmico. Soprattutto, corrisponde al punto matematico intorno al cui ruota la nostra galassia. Nelle altre galassie ne sono stati scoperti una dozzina, ma si pensa che ce ne siano milioni.
“Integral ha passato i primi cinque anni a osservare il centro della galassia – spiega Ubertini, principal investigator della missione – Poi si è deciso di guardare all’esterno della nostra galassia per capire come i buchi neri abbiano influito sulla formazione dell’universo. Non sono solo mostri gravitazionali, ma aiutano a capire come l’universo di idrogeno si è trasformato ed evoluto in stelle e galassie. Integral ha scoperto 700 galassie che emettono grosse quantità di raggi gamma. Se capiamo la correlazione tra collasso dell’idrogeno e momenti successivi alla formazione di un buco nero, possiamo ritenere di aver interpretato il funzionamento dell’universo”.
Finora sono stati osservati cinquemila lampi gamma ma nessuno di questi proveniente da un buco nero con massa 100 o 1000 volte più grande di quella del Sole. Nel contempo si è appurato come molti dei sistemi binari abbiano visto una delle due stelle trasformarsi in buco nero (ne sono state scoperte oltre 500). Fenomeni che si intrecciano con il grande interrogativo dell’energia e della materia oscura che compongono il 97% dell’universo, a sua volta formato da stringhe ovvero strisce di instabilità gravitazionale. Proprio nel giugno 2012 l’Agenzia Spaziale Europea ha approvato la missione Euclid, nuovo telescopio spaziale che verrà lanciato nel 2020 con un vettore Soyuz dalla Guyana Francese e, operando nel punto di equilibrio di Lagrange L2 (uno dei punti di bilanciamento delle azioni gravitazionali di Sole e Terra) avrà il compito di realizzare il censimento delle galassie fino a 10 miliardi di anni di età e rivelare le forze che accelerano l’espansione dell’universo, ovvero quella energia oscura che rappresenta oltre due terzi della massa e dell’energia dell’universo.
Ennesimo sorprendente risultato del satellite Swift della NASA, grazie al quale è stato scoperto un nuovo buco nero nella Via Lattea. La mattina del 16 settembre il satellite ha registrato un lampo di raggi X duri, provenienti da una sorgente situata in direzione del centro della nostra galassia. Molto probabilmente si tratta di una rara nova X, che segnala la presenza di un buco nero in un sistema binario. Alla missione Swift l’Italia contribuisce tramite ASI e INAF.
“La scoperta di una nuova nova nella banda X è un evento molto raro ed al massimo ci si aspetta di scoprirne una durante la vita di un satellite”, dice Neil Gehrels PI della missione Swift al Goddard Space Flight Center della NASA, “è una scoperta che stavamo aspettando ed ancora una volta Swift non ha deluso le attese”. Una nova X è una sorgente che emette raggi X per un breve lasso di tempo: compare all’improvviso nel cielo X, raggiunge il massimo della sua emissione nel giro di alcuni giorni e poi decade lentamente su tempi scala di mesi. La comparsa di una sorgente brillante di raggi X è dovuta all’improvvisa caduta di una copiosa quantità di gas che precipita su un oggetto compatto: una stella di neutroni o un buco nero. Questa nuova nova X ha “attivato” il Burst Alert Telescope a bordo di Swift due volte nella mattina di domenica 16 settembre ed un’altra volta il giorno successivo. “Questa ripetuta esplosione di raggi X e la sua posizione, situata a qualche grado dal centro della nostra galassia verso la costellazione del Sagittario, hanno fatto immediatamente capire che non si trattava di un Gamma Ray Burst” dice Gianpiero Tagliaferri dell’Istituto Nazionale di Astrofisica e Responsabile Scientifico del team Italiano nel progetto Swift. La nuova sorgente è stata chiamata Swift J1745-26, partendo dalle sue coordinate nel cielo, ed è stata successivamente rivelata anche nella banda infrarossa e radio, ma non in quella ottica probabilmente a causa del forte assorbimento dovuto a nubi di polvere che si trovano verso il centro della nostra galassia.
La nova ha raggiunto il massimo della sua emissione nella banda dei raggi X duri (ad energie sopra i 10,000 elettronvolt) il 18 settembre, quando ha raggiunto un’intensità equivalente a quella della Nebulosa del Granchio, un resto di supernova tra le sorgenti più brillanti in queste bande energetiche ed utilizzato come sorgente di calibrazione per gli esperimenti di alta energia. Mentre l’emissione della nova si affievoliva alle energie più alte, nella banda dei raggi X soffici è aumentata, come mostrato dal telescopio XRT (X-ray Telescope) di Swift. Un andamento tipico di altre nove X. Il mercoledì successivo Swift J1745-26 era diventata 30 volte più brillante nei raggi X soffici di quando era stata scoperta ed il suo flusso ha continuato a crescere.
“L’andamento che stiamo osservando nei raggi X è tipico delle nove in cui l’oggetto centrale è un buco nero. Quando l’emissione X sarà cessata speriamo di poter misurare la sua massa e confermare la presenza del buco nero” dice Boris Sbarufatti, giovane astronomo dell’Osservatorio Astronomico di Brera dell’INAF, che attualmente lavora presso il centro operativo di Swift della Penn State University, in Pennsylvania. Il buco nero deve far parte di un sistema binario con una stella compagna di tipo solare, un sistema che gli astronomi chiamano “binaria X di piccola massa” (low-mass X-ray binary: LMXB). Nelle LMXB un flusso di gas passa dalla stella normale e va a formare un disco attorno al buco nero. Nella maggior parte dei casi il gas del disco spiraleggia surriscaldandosi mentre cade verso l’oggetto compatto producendo un flusso continuo di raggi X. Ma la possibilità di avere un flusso costante entro il disco dipende dal tasso di materia che fluisce dalla stella compagna. Sotto certe condizioni il disco non mantiene un flusso costante di materia, ma oscilla tra due stati drammaticamente diversi: uno stato più freddo e meno ionizzato in cui il gas si accumula nella parte più esterna del disco, come fa l’acqua dietro ad una diga, ed uno più caldo e ionizzato che manda una forte ondata di gas verso il centro. E questo è quello che abbiamo osservato in questa nuova sorgente. Questo fenomeno, chiamato ciclo termico-viscoso, si pensa spieghi fenomeni transienti di questo tipo osservati in una varietà di sistemi.
“Swift – ricorda Barbara Negri, Responsabile ASI Esplorazione e Osservazione ell’Universo – è un satellite dedicato allo studio dei GRB a cui contribuiscono sia ASI che INAF. In particolare l’Italia ha fornito gli specchi del telescopio X (XRT) e mette a disposizione la stazione di terra di Malindi.”
“Il team italiano partecipa regolarmente alla gestione scientifica del satellite – ricorda Roberto Della Ceca, Coordinatore dell’Unità Organizzativa Attività Spaziali dell’INAF – garantendo l’immediata diffusione delle informazioni scientifiche sulle nuove sorgenti, in particolare i GRB ed i transienti appena scoperti”.
Il lancio del veicolo di trasferimento automatizzato, in acronimo ATV, che l’Agenzia Spaziale Europea ha dedicato allo scienziato italiano Edoardo Amaldi, è stato posticipato rispetto alla data prevista del 9 marzo a seguito di verifiche che hanno suggerito ulteriori controllo. L’ATV sarà messo in orbita con il razzo vettore Ariane 5 dallo spazioporto di Kourou nella Guyana Francese. Dopo il volo di qualifica dell’ATV-1 Julius Verne nel 2008 e la prima missione operativa dell’ATV-2 Johannes Kepler lanciato nel 2011, il terzo esemplare della navetta automatica raggiungerà con il suo carico di rifornimenti la Stazione Spaziale Internazionale, provvedendone a correggere anche l’assetto e la quota orbitale. A bordo 6,6 tonnellate di rifornimenti, di cui 285 kg di acqua e tre tonnellate di propellente per il controllo dell’assetto, oltre che ossigeno, cibo, acqua potabile, gas, materiale per la ricerca e attrezzature per la manutenzione. L’attracco alla Stazione Spaziale Internazionale avverrà il19 marzo, il distacco è previsto il27 agosto. La missione di ATV-3, che inizia esattamente nello stesso giorno in cui è avvenuto il lancio inaugurale tre anni fa, avrà una durata di 171 giorni, durante i quali fornirà un supporto logistico fondamentale all’equipaggio della ISS.
Dopo Giulio Verne e Giovanni Keplero, la scelta è caduta su Edoardo Amaldi, eminente figura scientifica, politica e sociale, accademico dei lincei dal 1948 e presidente dell’istituzione dal 1988 al 1989. Edoardo Amaldi, uno dei ragazzi di Via Panisperna, la scuola di fisica di Enrico Fermi, è considerato il padre fondatore della scienza e delle attività spaziali europee. Egli ebbe, infatti, un ruolo decisivo nella costituzione del laboratorio europeo CERN e nella nascita della Agenzia Spaziale Europea. Non a caso, a bordo dell’ATV-3 volerà una cianografia di una lettera scritta dal fisico italiano nel 1958 a Gino Crocco, altra eminente figura di scienziato spaziale, uno straordinario documento storico che rispecchia l’ambiziosa visione di Amaldi per la creazione di un’organizzazione spaziale europea a carattere pacifico e non militare. Alla vigilia del lancio del terzo ATV, l’Accademia dei Lincei ha sottolineato il ruolo di Edoardo Amaldi nella costituzione degli Enti di Ricerca Europei e la sinergia tra CERN e Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, Agenzia Spaziale Europea e Italiana.
Mano a mano che la missione Planck dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) procede nella sua esplorazione verso gli albori dell’Universo, analizzando i dati in arrivo gli scienziati continuano a imbattersi in aspetti sconosciuti della nostra Galassia. E’ quanto emerge dal primo resoconto dei risultati astrofisici, ottenuti dalle osservazioni della Via Lattea e di altre galassie, attraverso il satellite Planck. Se n’è parlato in un summit svoltosi nell’area della ricerca del CNR a Bologna, promosso dalle agenzie spaziali italiana ed europea e dall’Istituto Nazionale di Astrofisica. Il lancio del satellite Planck è avvenuto il 14 maggio 2009, insieme al satellite Herschel. Dopo il lancio i due satelliti si sono separati per raggiungere il punto lagrangiano L2, a 1.5 milioni di Km dalla Terra, da dove svolgono i rispettivi programmi osservativi. La missione Planck è la terza Medium-Sized Mission (M3) del programma Horizon 2000 dell’ESA e ha lo scopo di studiare la radiazione cosmica di fondo. Due le principali caratteristiche inedite emerse di recente, protagoniste del convegno internazionale che si tiene a Bologna: enormi nubi di gas freddo mai segnalate prima, individuate da Planck grazie all’emissione del monossido di carbonio, e una sorta di foschia a microonde – o haze, come l’hanno battezzata gli astrofisici – la cui origine è tutt’ora senza spiegazione.
La prima mappa a tutto cielo del monossido di carbonio
Prevalentemente composte da molecole d’idrogeno, le nubi fredde costituiscono i bacini di gas dai quali si formano le stelle. Le molecole d’idrogeno, però, non emettono facilmente radiazione elettromagnetica, e questo le rende assai difficili da rilevare. Ma anche il monossido di carbonio (CO), che nelle nostre città è uno fra gli inquinanti atmosferici più diffusi, è un costituente delle nuvole fredde che popolano la Via Lattea e altre galassie. Seppur molto più rare di quelle d’idrogeno, le molecole di CO emettono radiazione elettromagnetica proprio nelle frequenze alle quali è sensibile Planck. Ed è proprio rilevandone le impronte che gli scienziati di Planck sono riusciti non solo a individuare nuove nubi molecolari dove non ci si attendeva d’incontrarne, ma addirittura a tracciare la prima mappa a tutto cielo delle emissioni di monossido di carbonio. Mappa che si rivelerà uno strumento preziosissimo, per esempio, per i radiotelescopi terrestri, anch’essi sensibili elle emissioni del CO ma costretti a esplorare solo porzioni limitate di cielo, a causa dell’enorme quantità di tempo che richiederebbe una survey completa.
Nebbia fitta nel centro galattico
Se la mappa a tutto cielo del monossido di carbonio è una prima assoluta, la grande sorpresa che le ultime analisi dei dati di Planck stanno regalando agli scienziati è una misteriosa foschia di microonde che sfida ogni spiegazione. Battezzata haze, o foschia, è stata rilevata da Planck nella regione che circonda il centro galattico, e si presenta come un tipo di emissione ben noto agli astrofisici: l’emissione di sincrotrone, generata allorché gli elettroni, accelerati dalle esplosioni di supernovae, si trovano ad attraversare i campi magnetici. L’emissione di sincrotrone associata a questa nuova, enigmatica foschia galattica presenta però caratteristiche che la rendono diversa da quella che si osserva altrove nella Via Lattea. In particolare, lo haze ha uno spettro più “duro”: vale a dire che, spostandosi verso energie maggiori, dunque verso frequenze più alte, l’intensità della sua emissione non diminuisce in modo repentino come invece avviene per l’emissione di sincrotrone “standard”. Un comportamento insolito per il quale gli scienziati stanno valutando le ipotesi più disparate, dalla maggiore frequenza di esplosione di supernovae al vento galattico, fino all’annichilazione di particelle di materia oscura. A oggi nessuna di queste ha però ricevuto una conferma, e il mistero perdura.
Gli ultimi veli prima della mappa cosmologica
Obiettivo primario di Planck è quello di osservare il fondo cosmico a microonde (CMB), risalente ad appena 380mila anni dopo il Big Bang, e decodificare le informazioni in esso contenute sulle componenti fondamentali dell’Universo e l’origine della struttura cosmica. Per vedere nei dettagli il fondo cosmico, però, occorre anzitutto rimuovere le contaminazioni introdotte dalla moltitudine di sorgenti di foregrounds (così chiamato perché si trovano davanti al fondo) sovrapposte. Fra di esse, l‘emissione del monossido di carbonio e la foschia galattica presentate in questi giorni a Bologna. «Un compito lungo e delicato, quello della rimozione, in grado però di fornirci un insieme di dati di prima qualità, tali da offrirci uno sguardo inedito sui temi caldi dell’astronomia galattica ed extragalattica», spiega Jan Tauber, dell’ESA, project scientist di Planck.
«I dati che il satellite Planck ha raccolto nei quasi tre anni di vita operativa stando dando informazioni estremamente importanti, che aiuteranno gli scienziati a comprendere meglio le problematiche che riguardano la nascita dell’Universo», dice Barbara Negri, responsabile ASI per l’Esplorazione e Osservazione dell’Universo – sottolineando «l’importanza e l’entità dell’impegno economico dell’ASI, che ha investito 36 milioni per lo sviluppo e la realizzazione dello strumento a bassa frequenza (LFI), con l’aggiunta di quello ad alta frequenza (HFI), garantendo un ulteriore stanziamento di 2,7 milioni nell’arco di tre anni per la fase scientifica comprendente la missione in orbita e l’analisi dei dati a terra». «Il lavoro di analisi di più di 450 scienziati di Planck continua senza sosta, per arrivare puntuali al rilascio, all’inizio del 2013, dei primi risultati cosmologici: quelli da cui ci attendiamo grandi sorprese», afferma Reno Mandolesi, responsabile dello strumento a bassa frequenza (LFI) del satellite. «Nel frattempo Planck», continua Mandolesi, «rimasto orfano dello strumento ad alta frequenza (HFI) per l’esaurimento dell’elio liquido necessario a raffreddare a 0.1 gradi Kelvin – la più bassa temperatura mai raggiunta nello spazio – i suoi bolometri, continua ad accumulare dati nella sua esplorazione del cielo con il solo strumento LFI, ancora perfettamente funzionante ed efficiente. Sono molto orgoglioso di guidare un team internazionale, con grande partecipazione italiana, di valore straordinario. Con Planck, la più complessa missione mai realizzata da ESA, l’Italia con ASI, INAF e le università coinvolte dimostra ancora una volta di essere una delle nazioni spaziali di eccellenza a livello internazionale. Un chiaro esempio di sulla sinergia tra comunità scientifica e industriale che segna un nuovo successo per il nostro Paese».
LA MISSIONE PLANCK
Planck è una missione dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA), che ha gestito il programma sin dagli esordi, nel 1993, e ha finanziato lo sviluppo del satellite, il lancio e le operazioni di controllo. Il prime contractor di ESA per Planck è stata Thales Alenia Space (Cannes, Francia). Un contributo fondamentale a Planck è stato dato dall’industria europea. In particolare, è stato decisivo il contributo di Thales Alenia Spazio (Torino) per il service module, di Astrium (Friedrichshafen, Germania) per gli specchi del telescopio e di Oerlikon Space (Zürich, Svizzera) per le strutture del payload. La maggior parte dei test criogenici e ottici più complessi sono stati eseguiti presso il Centro Spaziale di Liegi, in Belgio, e presso la sede di Cannes di Thales Alenia Space. L’eccezionale know-how richiesto per lo sviluppo dello strumento a bassa frequenza (LFI) e di quello ad alta frequenza (HFI) è stato fornito da due grandi consorzi internazionali, comprendenti in totale circa 50 istituti scientifici dell’Europa e degli Stati Uniti, finanziati dalle agenzie dei Paesi coinvolti.
Per quanto riguarda lo sviluppo degli strumenti scientifici, un contributo importante è dovuto a Thales Alenia Space (Milano) per LFI e a Air Liquide – DTA (Grenoble, Francia) per HFI. I due consorzi sono anche responsabili per l’operatività scientifica dei rispettivi strumenti e per il trattamento dei dati. Alla guida dei consorzi, i due principal investigators: J.-L. Puget, dell’Institut d’Astrophysique Spatiale di Orsay (Francia), è responsabile di HFI (finanziato principalmente dal CNES e dal CNRS [INSU, IN2P3]), mentre N. Mandolesi, dell’Istituto di Astrofisica Spaziale e Fisica Cosmica di Bologna, è responsabile di LFI (finanziato principalmente dall’ASI e dall’INAF). La NASA ha finanziato lo US Planck Project, con base a JPL e con il coinvolgimento di scienziati da numerose istituzioni degli Stati Uniti, il cui contributo all’impegno dei due consorzi è stato decisivo. Un consorzio d’istituti danesi, finanziato dal Danish National Research Council, ha preso parte insieme all’ESA allo sviluppo dei due specchi del telescopio di Planck. Planck è gestito dal Flight Control Team del Mission Operations Centre (MOC), presso lo European Space Operations Centre (ESOC) dell’ESA, a Darmstadt (Germania). Il Planck Science Office, presso lo European Space Astronomy Centre (ESAC) dell’ESA, in Spagna, gestisce l’intera survey e coordina le operazioni scientifiche dei due strumenti.
Maggiori dettagli sono disponibili su web, agli indirizzi: https://www.satellite-planck.it/content/view/23/46/ (per LFI) e https://www.planck.fr/heading1.html (per HFI).
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