da Sorrentino | Giu 26, 2013 | Medicina, Ricerca, Telescienza
In Europa e in Usa sopravvive al cancro un numero di cittadini che negli ultimi quarant’anni è costantemente aumentato, fino a raggiungere i 14 milioni in UE e i 12 milioni in USA e in Canada. Di pari passo col fenomeno della sopravvivenza emergono, però, anche problemi fino ad ora sconosciuti e nuove sfide per la ricerca, l’assistenza (sanitaria, sociale e psicologica), i malati e le loro famiglie. Per quanto inequivocabili, infatti, i dati quantitativi non spiegano tutto ed anzi pongono ulteriori interrogativi: chi, dove, come e perché si sopravvive? Tutte informazioni preziosissime, che preparano la strada ai progressi di domani.
Per raccogliere questi dati – ancora iniziali e frammentari – analizzarli e condividerli, nasce l’ampio network dell’ European Collaborative Group on Cancer Survivorship (ECGCS), innovativo modello di collaborazione internazionale ed interdisciplinare che ha già prodotto un efficace confronto tra Europa e Stati Uniti: un confronto a cui la principale rivista del settore, “Cancer, Interdisciplinary and International Journal of American Cancer Society”, dedica in questi giorni un numero speciale dal titolo “European – American Dialogues on Cancer Survivorship: Current Perspectives and Emerging Issues”. (l’edizione online è disponibile in https://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1002/cncr.v119.S11/issuetoc).
L’ECGCS ed il suo sito web (www.ecgcs.eu) rappresentano la piattaforma verso cui stanno oggi confluendo autorevoli ricercatori europei, americani, canadesi ed australiani, e da cui sarà avviato in futuro anche un forum di discussione con e tra i pazienti.
Capofila dell’ECGCS è l’Istituto di ricerca e cura dei tumori Giovanni Paolo II di Bari che nel corso del 2012, in occasione dei congressi internazionali di Bari, Washington e Copenaghen ha fondato e promosso l’iniziativa presso gli esperti del settore ed i delegati di organismi come l’ESO (Scuola Europea di Oncologia), l’OECI (Unione degli Istituti Europei dei Tumori) e l’ECPC (European Cancer Patient Coalition).
Il coordinamento del progetto è affidato al Direttore del Dipartimento di Area Critica e dell’Unità di Psico-oncologia dell’IRCCS barese Vittorio Mattioli, che è anche il project leader del “Programma nazionale di ricerca sulla riabilitazione dei sopravvissuti di lungo termine al cancro” e responsabile per l’Italia del WP8 dell’European Partnership dof Action Against Cancer. L’European Partnership for Action Against Cancer ha il compito di sviluppare una guida europea per il miglioramento della qualità globale nel controllo del cancro: tra i temi affrontati, anche quello della sopravvivenza attraverso il Work Package 8, che coinvolge nove Paesi Europei e lo stesso ECGCS.
Nel Comitato Direttivo siedono ricercatori di fama internazionale, mentre tra gli advisors spiccano figure come Kevin Stein dell’American Cancer Society, Caterina Alfano del NCI-NIH Office of Cancer Survivorship (Usa), Arminee Kazanjian del Consorzio Canadese di Ricerca sulla Sopravvivenza al Cancro, Michael Jefford del Centro Australiano sulla Sopravvivenza al Cancro ed il Presidente OECI Wim van Harten.
da Sorrentino | Apr 26, 2013 | Medicina, Telescienza
Si riduce del 25% la mortalità per infarto acuto, grazie alla terapia con aspirina a basse dosi sviluppata dall’Accademico dei Lincei Carlo Patrono, Direttore dell’Istituto di Farmacologia dell’Università Cattolica. Per i risultati ottenuti con questa terapia, al Prof. Patrono e al Prof. Garret A. FitzGerald, Direttore del Dipartimento di Farmacologia dell’Università della Pennsylvania, è stato assegnato il Gran Prix Scientifique dell’Institut de France – Fondation Lefoulon-Delalande, uno dei maggiori riconoscimenti mondiali nel campo della ricerca farmacologica e clinica, considerato il più importante al mondo in ambito cardiologico. La consegna del premio di 500 mila euro è in programma il 5 maggio 2013 a Parigi nella sede dell’Institut de France.
L’aspirina con dosaggi di 75 – 100 mg contrasta la produzione nel sangue di alcune prostaglandine che contribuiscono alla formazione dei trombi arteriosi responsabili dell’infarto miocardico e dell’ictus cerebrale di natura ischemica. Questa terapia protettiva è attualmente seguita in Italia da circa sei milioni di persone. L’aspirina a basse dosi (acido acetilsalicilico in dosi comprese tra 75 e 100 milligrammi da assumere una volta al giorno) riduce la mortalità dei pazienti con infarto acuto del miocardio di circa un quarto ed è attualmente assunta in Italia da circa sei milioni di persone. Gli studi di Patrono e FitzGerald hanno dimostrato che dosi di aspirina 10-20 volte più basse di quelle normalmente utilizzate in passato sono sufficienti per bloccare selettivamente un importante meccanismo di attivazione piastrinica, lasciando inalterata la produzione di altre prostaglandine che svolgono funzioni protettive dell’endotelio vascolare e della mucosa gastrointestinale. “Molte persone hanno contribuito a questa storia di successo – precisa il Prof. Carlo Patrono – compresi i molti cardiologi e neurologi, europei e americani, i quali hanno deciso di verificare l’efficacia e la sicurezza delle basse dosi di aspirina, da noi suggerite come ottimali per ottenere l’effetto desiderato minimizzando gli effetti collaterali, in numerosi trial clinici di decine di migliaia di pazienti”. Ma l’aspirina non smetterà di stupirci, la ricerca infatti continua per caratterizzare ulteriormente questo farmaco salvavita a 115 anni dalla sua sintesi. “Le principali linee di ricerca che il mio gruppo sta sviluppando – aggiunge il professor Patrono – sono essenzialmente due: una riguarda la personalizzazione della terapia anti-aggregante piastrinica, attraverso lo studio dei determinanti della variabilità interindividuale nella risposta all’aspirina in alcune condizioni cliniche ad alto rischio cardiovascolare, come ad esempio il diabete; la seconda linea di ricerca riguarda la caratterizzazione dei meccanismi attraverso i quali l’aspirina a basse dosi sembra esercitare un effetto protettivo nei confronti di alcuni tumori (in particolare quelli intestinali, come dimostrato da una serie di studi pubblicati nel corso degli ultimi 3 anni), compreso il possibile ruolo delle piastrine nelle fasi iniziali della trasformazione neoplastica a livello colo-rettale”.
da Sorrentino | Apr 25, 2013 | Biologia, Medicina, Telescienza
Sessant’anni fa, il 25 aprile del 1953, gli scienziati James Watson e Francis Crick pubblicarono lo studio destinato a cambiare il corso della medicina e biologia. Per la prima volta fu descritta la struttura fondamentale del nostro codice genetico: la doppia elica del Dna. Fu la rivista “Nature” a pubblicare lo storico articolo in cui James Watson e Francis Crick espongono la loro interpretazione dei dati cristallografici raccolti da DNA batterico da Maurice Wilkins e Rosalind Franklin. Secondo la loro corretta interpretazione, la struttura della macromolecola è costituita da due catene che, come una specie di scala a chiocciola, si avvolgono parallelamente attorno allo stesso asse. La lunga molecola è tenuta assieme da coppie di quattro basi azotate, che formano i “pioli” della scala (adenina, timina, guanina e citosina, abbreviate in A, T, G, e C). Dal fatto che le basi si accoppiano sempre allo stesso modo ( A può legare solo con T e G può legare solo con C), Watson e Crick suggerirono nell’articolo che i due lati della “scala” potessero servire come stampo l’uno per l’altro, garantendo così la possibilità che l’informazione genetica venga copiata e si conservi inalterata da cellula a cellula.
Nel famoso numero della rivista scientifica Nature, datato 25 aprile 1953 (www.nature.com/nature/dna50/archive.html) vennero pubblicati tre lavori fondamentali destinati a modificare la ricerca biomedica: “A Structure for Deoxyribose Nucleic Acid” di Watson e Crick; “Molecular Structure of Deoxypentose Nucleic Acids” di Wilkins, Stokes e Wilson; “Molecular Configuration in Sodium Thymonucleate” di Franklin e Gosling, Nei tre articoli veniva definita la struttura tridimensionale del DNA, la molecola in cui è conservata l’informazione genetica. Per questi lavori Watson, Crick e Wilson hanno ricevuto il premio Nobel per la Medicina nel 1962. Tuttavia anche i dati cristallografici prodotti da Rosalind Franklin, morta prematuramente nel 1958, avevano contribuito allo sviluppo del modello.
James Watson e Francis Crick ebbero il merito di notare per primi che, grazie alla struttura del DNA, il materiale genetico potesse duplicarsi in modo da trasmettere alle cellule figlie molecole di DNA identiche a quelle presenti nella cellula madre. Questo concetto venne ulteriormente specificato dai due autori nel maggio 1953, sempre su Nature. Una risposta completa sui meccanismi alla base dell’ereditarietà dei caratteri biologici, diventata la base degli studi sulla genetica umana.
La letteratura scientifica ricorda come l’anno 1944 segnò una svolta negli studi sulla ereditarietà delle informazioni genetiche. Fu Erwin Schrodinger a formulare nel saggio dal titolo “What is life?” la tesi che il materiale genetico venisse duplicato fedelmente ad ogni divisione cellulare all’interno del DNA, mentre uno studio condotto da una equipe di biologi dimostrava che l’informazione genetica è contenuta nel DNA.
Nove anni dopo si arrivò alla definizione della struttura del DNA descritta nei tre articoli pubblicati su Nature. Il DNA è una spirale destrorsa composta da due filamenti antiparalleli e tra loro complementari. Ognuno dei due filamenti è un polimero (come una collana di perle è un “polimero” di perle) formato da 4 differenti nucleotidi: Adenina (A) Timidina (T) Citosina (C) e Guanina (G). La sequenza di questi nucleotidi nel filamento definisce l’informazione genica, un po’ come le lettere dell’alfabeto formano le parole.
La definizione della struttura del DNA ha gettato le basi per le moderne biotecnologie e innescato altre scoperte. La prima è stata la decifrazione da parte di Nirenberg e Khorana, Holley (premi Nobel per la Medicina nel 1968) del codice genetico ovvero delle regole che permettono di tradurre l’informazione contenuta nel DNA sotto forma di sequenza di nucleotidi nella sequenza di aminoacidi che costituiscono le proteine. La seconda è stata la metodica per determinare la sequenza di nucleotidi in una molecola di DNA. La tecnica principale, quella che è alla base delle metodiche ancora oggi utilizzate, è stata messa a punto nel 1975 da Frederick Sanger. Per questa scoperta Sanger vinse il premio Nobel per la Medicina nel 1980 dopo aver già vinto quello per la Chimica nel 1958 per il sequenziamento delle proteine. La tecnica usata per sequenziamento del DNA si basa sugli studi sulla biochimica della replicazione del DNA da parte del gruppo di Arhur Kornberg (Nobel per la Medicina nel 1958). Tra gli allievi di Kornberg anche un italiano, il prof. Arturo Falaschi. primo Direttore dell’Istituto di Genetica Biochimica ed Evoluzionistica del CNR a Pavia (ora Istituto di Genetica Molecolare diretto dal prof. Giuseppe Biamonti) che durante tutta la sua lunga carriera scientifica si è occupato di studiare i meccanismi della replicazione del DNA nelle cellule umane.
L’istituto è stato uno dei principali centri in cui si è sviluppata la biologia molecolare e l’ingegneria genetica in Italia negli anni 70 e oggi è uno dei pochi istituti del CNR dove si continua a studiare la biologia molecolare del DNA, particolarmente i meccanismi responsabili di mantenere la stabilità del genoma. Negli anni 80 e 90 il CNR ha favorito in modo importante lo sviluppo della biologia e della genetica molecolare in Italia con i progetti finalizzati “ingegneria genetica” diretto dal Prof. Arturo Falaschi e “genoma umano” diretto dal premio Nobel Prof. Renato Dulbecco tramite il quale l’Italia ha contribuito al sequenziamento del genoma dell’uomo.
“Gli spettacolari sviluppi delle tecnologie del sequenziamento e della manipolazione del DNA (ingegneria genetica) – scrive Giuseppe Biamonti – hanno permesso di identificare i geni che, quando mutati, sono alla base di importanti patologie o di modificare micro-organismi, piante e animali (OGM) sia per scopi medici che alimentari. E negli ultimi anni due nuove frontiere si sono aperte: la biologia sintetica, che si prefigge di manipolare il DNA per sintetizzare funzioni biologiche originali non presenti in natura, e l’uso del DNA per lo sviluppo di nuovi computer e sistemi di immagazzinamento dei dati.
Come nel caso di altre scoperte umane, la fase di comprensione di un fenomeno naturale dovuta alla curiosità umana, ha aperto la strada ad un veloce futuro di applicazioni con ovvie ricadute economiche. La speranza è di riuscire a sfruttare al meglio le nostre conoscenze per il bene del paese. In questo senso possono essere utili i progetti bandiera MIUR/CNR come “Epigen” “Nanomax” e “Interomics” tesi a favorire lo sviluppo di tecnologie adeguate per affrontare problemi moderni della tecnologia del DNA”.
Peraltro, negli ultimi mesi le cronache scientifiche hanno dato risalto alla scoperta dell’italiana Giulia Biffi, ricercatrice a Cambridge, la quale ha provato che il Dna può assumere una forma a quadrupla elica. Una scoperta che apre un nuovo scenario e propone nuovi percorsi di studio ai genetisti.
Per celebrare i 60 anni dalla definizione della struttura del DNA, la SIBBM (Società Italiana di Biofisica e Biologia Molecolare) terrà il suo convegno annuale a Pavia dal 5 al 7 Giugno.
da Sorrentino | Apr 23, 2013 | Medicina, Ricerca, Telescienza
E’ lo “Studio dei Meccanismi alla base della patogenesi dell’Osteosarcoma” il progetto di ricerca scientifico che la Fondazione Just Italia ha deciso di sostenere e finanziare affiancando la missione di AISOS Onlus, l’associazione Italiana fondata e presieduta dal medico Francesca Maddalena Terracciano che opera per la prevenzione e la diagnosi precoce dell’ osteosarcoma, il tumore maligno primitivo più frequente dello scheletro che colpisce in prevalenza bambini e adolescenti. L’indagine scientifica si rivela fondamentale per attaccare e distruggere i processi biomolecolari che portano all’insorgenza e allo sviluppo di questa neoplasia maligna. Lo studio finanziato dalla Fondazione Just Italia (Onlus dell’omonima azienda veronese che sostiene ogni anno un progetto nazionale di ricerca scientifica) serve a dare impulso a protocolli terapeutici innovativi e più efficaci attraverso la diagnosi tempestiva.
Il progetto è stato presentato a Roma nel corso di un incontro a cui hanno partecipato Francesca Maddalena Terracciano, presidente Aisos, Marco Salvatori, presidente Fondazione Just Italia, Carlo Della Rocca, vicepresidente Comitato Scientifico AISOS Onlus – Università La Sapienza, e Barbara Peruzzi, project leader – Ospedale Pediatrico Bambino Gesù
AISOS” – ha ricordato Francesca Maddalena Terracciano, “è nata nel 2004 con il preciso obiettivo di sostenere i piccoli pazienti e le loro famiglie attraverso un percorso strutturato e protetto, dove il paziente è al centro di un protocollo multidisciplinare, in cui si alternano professionisti di elevato livello professionale (anatomopatologi, ortopedici, neuropsichiatri infantili, psicanalisti e psicoterapeuti). L’Associazione si pone inoltre come sportello informatico tra le varie sedi ospedaliere e come Protocollo tra il personale medico e quello delle professioni sanitarie”. AISOS Onlus istituisce corsi di formazione e informazione sul piano nazionale e internazionale. L’ultimo è stato organizzato presso l’Ordine dei Medici di Roma, nel dicembre 2012. Finanzia progetti di ricerca e borse di studio. E’ in rete con dieci ospedali italiani.
“Oggi quattro bambini su cinque malati di Osteosarcoma guariscono; il nostro obiettivo – ha aggiunto Terracciano – è riuscire a guarirli tutti”.
Lo Studio si propone di indagare i meccanismi che possono portare alla propagazione della malattia, con particolare attenzione al ruolo svolto dalle microvescicole. Ne ha fornito una sintesi la biotecnologa Barbara Peruzzi , membro del Comitato Scientifico di AISOS Onlus, che guiderà l’équipe di Ricerca incaricata di condurre lo Studio. “Le microvescicole sono identificate in campo scientifico con la sigla MVs e sono microparticelle in grado di veicolare informazioni di varia natura tra le cellule dell’organismo, svolgendo la funzione di mediatori cellulari. Per questa caratteristica, si può ipotizzare che siano coinvolte nel “dialogo” tra le cellule di Osteosarcoma e le cellule sane del tessuto osseo, rappresentando una componente chiave nell’insorgenza e progressione del tumore. La conferma di questa ipotesi –ha sottolineato Barbara Peruzzi – è l’obiettivo di questo Progetto. Interferire con il rilascio delle MVs rappresenta un modo per ostacolare l’evoluzione del tumore”.
L’adesione a un Progetto Scientifico di questa portata è stata argomentata da Marco Salvatori, Presidente di Fondazione Just Italia: “Ogni anno, coerentemente con i valori e la cultura della Responsabilità Sociale di cui la Fondazione è una espressione concreta, sosteniamo un Progetto di Ricerca di rilevanza nazionale destinato al mondo dei bambini. Lo abbiamo fatto negli anni scorsi con analoghi Centri di eccellenza che abbiamo affiancato nelle ricerche sulla Leucemia Linfoblastica Acuta, la Sindrome di Rett, l’utilizzo di cellule staminali mesenchimali per la ricostruzione di ossa distrutte dal tumore. Sono iniziative che ci hanno coinvolto profondamente” – ha proseguito Salvatori –”anche perché la nostra attività imprenditoriale (Just Italia è leader nella vendita a domicilio di cosmetici naturali e opera attraverso una rete di ben 20.000 incaricati alle vendite sull’intero territorio nazionale) “ci porta quotidianamente a contatto con migliaia di famiglie, con le quali stabiliamo una relazione diretta e amichevole. Sappiamo che cosa significhi avere un bambino malato, a volte senza futuro. I contenuti e gli obiettivi del progetto AISOS ci sono sembrati particolarmente innovativi perché indagano un’area tuttora sconosciuta di questa malattia e fanno intravvedere prospettive incoraggianti”. Da ultimo, Marco Salvatori ha sottolineato un aspetto di grande attualità “Sappiamo bene, come cittadini e come imprenditori, quali siano le difficoltà che incontrano i ricercatori italiani per la carenza di risorse e assistiamo con rammarico alla fuga di cervelli dal nostro Paese. Se il nostro contributo può aiutare a prevenire qualche migrazione di giovani talenti ne siamo doppiamente felici. Abbiamo deciso di affiancare AISOS anche perché siamo stati contagiati dalla loro determinazione e dal loro entusiasmo e affidiamo a questo Progetto le speranze di tanti bambini e delle loro famiglie”.
Sull’inquadramento di questa particolare Ricerca nell’ambito degli studi in corso sull’Osteosarcoma e sulle peculiarità di questa grave patologia é intervenuto il Prof. Carlo Della Rocca, Professore Ordinario di Anatomia Patologica a “La Sapienza” Università di Roma e Vice Presidente del Comitato Scientifico di AISOS Onlus, ricordando come “sostenere la ricerca nel campo di malattie gravi, ma poco frequenti, come l’Osteosarcoma, contribuisca a mantener accesa la speranza di coloro che sono affetti dalla patologia e dei loro familiari. Il volontariato in questi casi diventa determinante, stanti le scarse risorse istituzionali spesso concentrate su malattie a più ampia diffusione sociale”.
da Sorrentino | Mar 1, 2013 | Biologia, Medicina, Ricerca, Telescienza
Con grande dispiacere dei genitori, che pensano che i loro figli debbano passare meno ore a giocare ai videogames e più ore a studiare, il tempo impiegato con i videogiochi d’azione può effettivamente aiutare i bambini dislessici a leggere meglio. In effetti, 12 ore passate ai videogiochi migliorano la capacità di lettura più di quanto non faccia un anno di lettura spontanea o trattamenti di lettura tradizionali. E’ quanto è emerso da uno studio pubblicato oggi sulla rivista Current Biology, secondo step di un lavoro precedente dello stesso team di ricerca che collega la dislessia a problemi di attenzione visiva.
“I videogiochi d’azione migliorano molti aspetti dell’attenzione visiva e favoriscono l’estrazione di informazioni dall’ambiente”, sottolinea Andrea Facoetti dell’Università degli Studi di Padova e consulente all’Istituto Scientifico “E. Medea”.
I risultati dello studio sono un’ulteriore conferma che i deficit di attenzione visiva sono alla base della dislessia, una condizione che rende la lettura estremamente difficile per un bambino su dieci.
Il team di Facoetti, che vede coinvolti Sandro Franceschini, Simone Gori, Milena Ruffino, Simona Viola e Massimo Molteni, ha testato la lettura, le capacità fonologiche e di attenzione di due gruppi di bambini con dislessia che non erano utilizzatori abituali di videogames. I bimbi sono stati valutati nelle loro capacità attentive e di lettura prima e dopo aver giocato con videogiochi di azione o non-azione per nove sedute di 80 minuti. Ebbene, i bambini che avevano utilizzato videogiochi d’azione sono stati in grado di leggere più velocemente senza perdere in accuratezza ed hanno anche mostrato progressi in altri test di attenzione. Questi sorprendenti risultati sulle abilità di lettura si sono mantenuti anche ad un successivo controllo dopo due mesi.
“Dover colpire un bersaglio periferico in movimento comporta un’abilità di percezione del contesto e quindi di rapida attenzione al particolare che aiuta i bambini dislessici molto di più di un allenamento alla lettura. Grazie ai videogiochi i bambini dislessici hanno imparato a orientare e focalizzare la loro attenzione per estrarre le informazioni rilevanti di una parola scritta in modo più efficiente, riducendo l’eccessiva interferenza laterale di cui sembrano soffrire. Per non parlare poi del problema del dropout: i trattamenti tradizionali sono spesso noiosi, molti bambini abbandonano”.
Tuttavia non vi è ancora nessun trattamento scientificamente testato per la dislessia che includa questo tipo di videogiochi. “Questi risultati sono molto importanti per comprendere i meccanismi cerebrali che stanno alla base della dislessia – continua Facoetti – ma non possiamo raccomandare i videogiochi senza il controllo o la supervisione di uno specialista della riabilitazione neuropsicologica. Ricordiamo che un trattamento non si improvvisa e funzionano solo certi tipi di videogiochi: quelli di azione che agiscono sui circuiti cerebrali legati alla percezione del movimento”. I videogiochi di azione sono caratterizzati da stimoli estremamente veloci, un alto carico percettivo finalizzato ad una pianificazione motoria molto accurata, non prevedibilità temporale e spaziale degli stimoli che compaiono principalmente in visione periferica.
Infine, il fatto che si agisca sulle capacità di percezione e di attenzione, piuttosto che sulle competenze linguistiche, apre la strada a prospettive per interventi precoci: “Il nostro studio dà il via a nuovi programmi terapeutici in grado di ridurre i sintomi della dislessia o di prevenirla, nel caso di bambini a rischio, già prima che questi imparino a leggere.”
Per tale motivo il team dei ricercatori padovani e del Medea ha studiato, con il Dipartimento di Matematica dell’Università di Padova, dei videogiochi per tablet che verranno utilizzati prossimamente nelle scuole dell’infanzia di Lecco su un campione di 40 bambini a rischio di dislessia. E, incredibile a dirsi, quei bambini potranno anche divertirsi.
da Sorrentino | Feb 25, 2013 | Biologia, Medicina, Ricerca, Telescienza
Il giovane postdoc romano Felice Alessio Bava, in forza all’Istituto di ricerca biomedica di Barcellona, ha pubblicato il 24 febbraio un articolo sulla rivista Nature, in cui descrive come la proteina CPEB1 “toglie il freno” alla produzione di proteine utili alla trasformazione di cellule sane in cellule tumorali. La ricerca evidenzia anche come la famiglia di proteine CPEB possa essere utilizzata come bersaglio per futuri studi terapeutici.
I tumori hanno la caratteristica di crescere in modo incontrollato. Per trovare nuovi bersagli terapeutici, i ricercatori cercano di comprendere i meccanismi che controllano l’espressione dei geni che favoriscono lo sviluppo di tumori in processi come la divisione incontrollata delle cellule. Nature ha pubblicato un articolo frutto del lavoro del laboratorio guidato da Raúl Méndez, ricercatore dell’Istituto di ricerca biomedica (IRB Barcellona). Lo studio descrive il ruolo della proteina CPEB1 nella regolazione di un meccanismo che coinvolge più di 200 geni legati alla proliferazione cellulare e allo sviluppo di tumori. Tale meccanismo, studiato nelle cellule tumorali derivanti dal linfoma di Hodgkin, viene proposto come un sistema di regolazione generale che stimola la progressione tumorale.
I ricercatori descrivono come CPEB1 porti all’accorciamento di una regione altamente specifica dell’ RNA (la molecola nella quale risiede l’informazione utile alla produzione di proteine). Questa regione contiene gran parte dell’informazione necessaria a determinare se una molecola di RNA debba essere trasformata in proteina o meno. Raúl Méndez, che ha coordinato la ricerca ed è capo del gruppo di Controllo traduzionale del ciclo cellulare e differenziamento all’interno del centro di ricerca barcellonese, afferma che “CPEB1 ‘toglie il freno’ a centinaia di RNA che stimolano il de-differenziamento e la proliferazione cellulare, permettendo loro di essere tradotte in proteine che promuovono la trasformazione tumorale della cellula. CPEB1 non solo ha questa funzione nel nucleo delle cellule, ma accompagna anche le molecole di RNA nel citoplasma”.
Raúl Méndez è un esperto di tutta la famiglia di proteine CPEB, proteine che uniscono l’RNA e che hanno un ruolo chiave nello sviluppo embrionale. Méndez spiega che “le proteine CPEB sono necessarie per lo sviluppo e per la rigenerazione dei tessuti adulti attraverso le cellule staminali. Ma se il meccanismo governato dalle CPEB è continuamente attivato, le cellule si dividono quando non dovrebbero, e causano lo sviluppo dei tumori”. Questa famiglia di proteine è composta da quattro membri che hanno funzioni che si compensano reciprocamente in condizioni normali, ma che mostrano attività specifiche in condizioni patologiche.
Lo studio pubblicato da Nature è un’ulteriore dimostrazione di come le proteine CPEB potrebbero essere dei buoni bersagli terapeutici. Nel 2011, in un altro lavoro pubblicato su Nature Medicine, Méndez aveva identificato CPEB4 come la proteina responsabile dell’attivazione di centinaia di geni coinvolti nella crescita tumorale.
Il primo autore dell’articolo è il ricercatore italiano Felice Alessio Bava, post-doc nel gruppo di Raúl Méndez. Nel 2012 ha ottenuto il dottorato di ricerca, sempre a Barcellona, attraverso un prestigioso programma internazionale sponsorizzato da “la Caixa”. “Questa scoperta potrebbe essere positiva da un punto di vista terapeutico perché potrebbe significare che, rimuovendo o inibendo CPEB1, nelle cellule sane la sua funzione potrebbe essere sostituita da altri membri della famiglia di CPEB”, spiega Bava. “Mentre, nei tumori, CPEB1 è la sola proteina responsabile dell’accorciamento di questa regione dell’RNA e favorisce quindi la formazione di tumori”.
“Ho lasciato l’Italia nel 2008 per venire a fare ricerca a Barcellona”, aggiunge Bava, “e qui ho trovato un contesto scientifico stimolante, dove mi sono stati dati tutti gli strumenti per svolgere una ricerca di qualità. Dopo i miei studi in Italia, le migliori offerte le ho ricevute dall’estero. In Italia la ricerca dovrebbe essere stimolata per promuovere l’eccellenza e condannare la corruzione intellettuale”.
Il laboratorio dove lavora Bava e guidato da Méndez ha identificato inoltre un sistema di screening farmacologico di molecole che inibiscono l’azione di CPEB nei tumori, e che hanno solo effetti secondari in cellule sane. Méndez ricorda che “non esiste al momento un farmaco che regoli in questo stadio l’espressione genica. Il nostro studio apre nuove possibilità terapeutiche e siamo ottimisti sul fatto di poter usare nel futuro le proteine CPEB come potenziali target “.
A questo studio ha partecipato anche il gruppo guidato da Juan Valcárcel presso Centro di Regolazione Genomica (CRG) di Barcellona, un esperto di processamento nucleare degli RNA, e Roderic Guigó, un esperto di biostatistica sempre del CRG. Il lavoro è stato finanziato dal consorzio Consolider RNAreg del Ministero dell’economia e competizione spagnolo e dal governo catalano (Generalitat de Catalunya).